Risorse scarse e molte emergenze da tamponare. Giorgia Meloni sa bene che al momento dell’insediamento a Palazzo Chigi si troverà davanti un quadro economico da brividi: dal terzo trimestre il pil è in calo e il deficit inferiore al previsto lasciato in eredità dal governo Draghi per effetto dell’inflazione lascia uno spazio fiscale del tutto insufficiente per mandare in porto la legge di Bilancio. In ballo non c’è solo la questione bollette: occorre anche decidere come intervenire per evitare che dall’1 gennaio torni in vigore a tutti gli effetti la legge Fornero, bestia nera di tutto il centrodestra ma anche dei sindacati, con relativo scalone. Scadute quota 102 (che consente l’uscita a 64 anni con 38 di contribuiti), Opzione donna e Ape sociale, l’età per la pensione di vecchiaia è destinata infatti a tornare di botto a 67 anni.

Di qui il lavorio, che va avanti già da settimane, per individuare una soluzione di compromesso in grado di garantire un minimo di flessibilità senza gonfiare eccessivamente una spesa già in fase di lievitazione per cause esterne e per scelte politiche precedenti. Sul primo fronte, il solo adeguamento degli assegni previdenziali all’inflazione secondo la Nota di aggiornamento al Def farà salire la spesa del 7,9% a quota 320,8 miliardi, pari al 16,2% del pil, dai 297,3 dell’anno in corso. Ma non solo: l’aumento registrato dal 2019 dipende anche, spiega la stessa Nadef, dall’applicazione della “quota 100” cara alla Lega, che “determina per gli anni 2019-2021 un sostanziale incremento del numero di pensioni in rapporto al numero di occupati” (per accedere bastavano 38 anni di contributi e 62 di età) e in tutto avrà un costo cumulato al 2028 di almeno 30 miliardi. Meno del previsto solo perché hanno aderito molte meno persone rispetto alle stime iniziali.

Il sentiero insomma è stretto anche perché Meloni deve fare i conti con l’eredità del governo gialloverde. Impensabile che accetti di realizzare la nuova promessa elettorale del Carroccio, “quota 41“: nel suo XX Rapporto annuale l’Inps ha calcolato che permettere di lasciare il lavoro con 41 anni di contributi a prescindere dall’età anagrafica costerebbe 4,3 miliardi il primo anno che salirebbero fino a 9,6 nel 2030. L’aggravio complessivo sulla spesa sarebbe di oltre 65 miliardi. La ricetta sostenuta dal responsabile Lavoro della Lega Claudio Durigon è destinata giocoforza ad essere perlomeno modificata, introducendo una soglia di età non troppo bassa.

L’altra ipotesi di cui si è parlato nei giorni scorsi, attribuendola alla premier in pectore, consisterebbe nella pensione a 58 anni (con 35 di contributi) ma con un calcolo interamente contributivo e di conseguenza una forte decurtazione dell’assegno, nell’ordine del 30% rispetto alla cifra che si riceverebbe aspettando di arrivare a 42 anni e 10 mesi di versamenti all’Inps. Di conseguenza questa “Opzione uomo” – molto simile all‘Opzione donna ora in scadenza – appare poco allettante in questa fase inflazionistica e proibitiva per chi parte da uno stipendio già basso. Il segretario generale della Cgil Maurizio Landini ha subito bocciato l’idea ma senza offrire alternative: si è limitato a suggerire di “affrontare la complessità del sistema pensionistico” e “combattere la precarietà” per garantire assegni decenti agli attuali lavoratori.

Questo fronte, rimasto fuori dai radar della nuova maggioranza, è in effetti ritenuto cruciale dagli addetti ai lavori. Chi oggi guadagna poco e con contratti precari che comportano lunghi “buchi” nella storia contributiva rischia di trasformarsi in un pensionato povero, che avrà bisogno di assistenza pubblica perché con l’assegno non arriverà a fine mese. L’economista Michele Raitano, ordinario di Politica economica alla Sapienza che ha di recente fatto parte della task force sul lavoro povero nominato dal ministro uscente Andrea Orlando, propone da anni una pensione contributiva di garanzia che stabilisca un livello minimo di prestazioni: chi con i contributi versati non arriva a quella cifra la riceverebbe comunque grazie a un’integrazione a carico della fiscalità generale o di una forma di finanziamento ad hoc nell’ambito del sistema previdenziale. Può sembrare meno urgente rispetto alla scelta su come mandare in pensione gli attuali over 55, ma se non si interviene sarà una delle grandi emergenze dei prossimi anni.

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