Votare, votare, votare. Vincendo delusioni, indifferenza e ogni tentazione di passività. È questo il messaggio della Chiesa di Bergoglio alla vigilia delle elezioni politiche del 2022. Un comunicato del consiglio permanente della Cei, guidato dal cardinale Zuppi, esorta sulla prima pagina del giornale dei vescovi Avvenire ad andare a votare: “Contro l’astensione per il bene comune in un’Italia solidale”. Sono elezioni cruciali non soltanto per la crisi economica e sociale e l’incombere del conflitto tra Russia e Occidente, ma perché l’Europa occidentale è risorta dalla seconda guerra mondiale sulla base del fermo ripudio del nazi-fascismo e di ogni parafascismo (franchismo, petainismo), mentre in Italia potrebbe arrivare al governo una presidente del Consiglio che si proclama atlantica però mantiene un atteggiamento ambiguo tra l’eredità ideale della Repubblica sociale e la lotta partigiana. Non è cosa di poco conto.

Nessuno immagina un ritorno delle camicie nere o dello stato dittatoriale, ma c’è un sostrato culturale sotterraneamente giustificazionista dell’avventura fascista che non ha senso rimuovere. Trump, alla cui retorica Giorgia Meloni spesso assomiglia, non diceva forse che tra suprematisti bianchi da un lato e anti-schiavisti dall’altro “ci sono persone per bene in entrambi gli schieramenti”? Francesco nelle settimane scorse ha messo nuovamente in guardia dai leader che si presentano come “salvatori” unicamente per dominare e “tenere in pugno” la situazione.
Il documento della Cei non tocca il tema dell’ideologia. Ma è pensato come pungolo per agire su quella massa di elettori indecisi se andare alle urne o no. L’appello dei vescovi non è moralistico, si rivolge con realismo all’opinione pubblica. “Il voto è un diritto e dovere – dice – da esercitare con consapevolezza”.

La posta in gioco è la “costruzione di una società più giusta, che riparta dagli ultimi” per rispondere ad un bisogno concreto di “comunità” in modo da non lasciare indietro nessuno. I giovani sono chiamati al voto proprio perché spesso, per esempio nel campo dell’ecologia, mostrano di porsi dalla parte di chi vuole affrontare e risolvere i problemi. Anche i “disillusi” sono coinvolti nell’appello, anzi chiamati per nome con insistenza. Sarebbe un errore pensare che nulla cambia, perché solo la partecipazione può spingere per superare le divisioni sociali e “guardare al bene del Paese”. L’agenda dei problemi, ricorda la Cei di Zuppi, è consistente: “Povertà in aumento costante e preoccupante, inverno demografico, protezione degli anziani, divari tra i territori, transizione ecologica e crisi energetica, difesa dei posti di lavoro, soprattutto per i giovani, promozione e integrazione dei migranti”. Chi ha orecchie per intendere intenda! C’è anche un accenno alla riforma della legge elettorale. Al di là delle elezioni questo 2022 sarà forse ricordato dagli storici per il tramonto definitivo della cultura politica democristiana. È una vicenda singolare perché alcuni degli attuali leader di spicco del Partito democratico, che più di altri aveva l’orgoglio di attingere anche alla linfa del cattolicesimo politico (oltre che all’esperienza del riformismo di stampo Psi e Pci), provengono proprio dal vivaio democristiano.

I segni di un oblio sono molteplici. Quando Enrico Letta (nato consigliere comunale democristiano) dichiara all’indomani dell’aggressione di Putin all’Ucraina che bisogna varare sanzioni tali da “mettere in ginocchio la Russia”, c’è qualcosa nella terminologia che suscita attenzione. Un Moro e un Andreotti non avrebbero mai usato un linguaggio del genere. In politica estera la tradizione di governo democristiana ha sempre tenuto ferma la barra sulla lealtà all’Alleanza atlantica, ma al contempo non ha mai rinunciato ad un dialogo speciale con la Russia. “Mettere in ginocchio” non è solo una concessione al linguaggio sbracato dei social, ma evidenzia l’abbandono di una politica orientata per decenni a costruire un polo europeo per la “politica orientale”. E infatti la svolta linguistica è sfociata nella rinuncia a costruire un asse con Francia, Germania e Spagna e – grazie alla mano morbida di Draghi – ci si è accodati ad una strategia che lascia le chiavi del conflitto totalmente nelle mani di Kyiv e di Washington.

Idem con la fine del governo di unità nazionale. Quando mai la Dc avrebbe permesso che una formula fallisse per un rigassificatore. L’arte di governo democristiana era maestra negli escamotage: astensione, non fiducia, sfiducia momentanea, entrate ed uscite dall’aula… “Nessun accordo con chi ha fatto cadere il governo”, proclama il ministro Guerini (matrice Dc) appena si profilano le elezioni. Mai nella sua storia la Democrazia cristiana ha detto “mai”. Il partito alleato di ieri diventava il non-nemico di domani, il partito avversario diventava il “convergente”, il lontano poteva essere funzionale ad un’astensione positiva. “Mai” era una parola sconosciuta. In effetti non sarebbe mai accaduto che il Pd si trovasse di fronte alla competizione con il centrodestra, privo di una rete di accordi elettorali inventati in base a qualche accrocco linguistico. C’era sapienza nell’inventiva di formule!

Ultimo dato: l’abbandono delle politiche sociali ad altri concorrenti. Con l’acqua alla gola, il Pd alza ora i vessilli del reddito di cittadinanza riformabile e del salario minimo, ma erano tematiche su cui poteva battagliare durante la stagione Draghi. L’unico che ha tenuto un discorso sociale da antico cristiano-democratico è stato Bergoglio, incontrando Bonomi e la Confindustria: il Papa ha parlato di sfruttamento e disuguaglianze eccessive di reddito tra lavoratori e manager, ha insistito per un salario adeguato e la protezione delle madri lavoratrici, ha denunciato le negligenze nel garantire la sicurezza, ha sottolineato che una quota troppo limitata del profitto va al lavoro. Non erano temi del cattolicesimo sociale?

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