Alcuni anni fa Hanan Ashrawi – professore universitario, ex ministro dell’Istruzione e unica donna che è stata membro del Ceolp prima di dimettersi – in una conversazione informale davanti a un piatto di pastasciutta, mentre Abu Mazen iniziava a far arrestare i suoi oppositori interni, mi disse: “Hai mai visto un movimento rivoluzionario guidato da un ultraottantenne?”. C’era e c’è tutto in questa frase. L’infelice affermazione – “sui 50 Olocausti palestinesi” – durante la conferenza stampa con il cancelliere tedesco Scholz a Berlino ha finito per mandare al macero lo scopo della sua missione diplomatica: chiedere i buoni uffici della Germania (il più stretto alleato di Israele nella Ue) per far tornare palestinesi e israeliani al tavolo negoziale.

Non sono un’esagerazione i massacri nei villaggi palestinesi durante la Nakba e la disordinata fuga di centinaia di migliaia di profughi nei Paesi vicini, ma il paragone è inaccettabile. Viene un momento in cui un vero leader capisce che il suo momento è al tramonto e passa la mano, specie dopo 14 anni al potere e 87 primavere sulle spalle. Non Abu Mazen, che appare incosciente dei danni che provoca questo suo atteggiamento. Diversi membri della delegazione palestinese giurano che quella frase nel testo non c’era, è stata improvvisata dal presidente. Ma vale la pena di soffermarsi sulla parola genocidio e il monopolio della parola rivendicato dagli ebrei.

La Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio, ratificata dall’Italia con la Legge 11 marzo 1952, n. 153, riconosce che il genocidio ha inflitto gravi perdite all’umanità in tutte le epoche storiche. La Sottocommissione per i diritti umani delle Nazioni Unite nel 1973 riconobbe lo sterminio armeno quale primo genocidio del XX secolo e il 24 aprile è la Giornata mondiale per ricordare questa tragedia. Nel 1915 ebbe inizio lo sterminio degli armeni perpetrato dai Giovani Turchi: 1,5 milioni di intellettuali, banchieri, grandi artisti, preti e perfino delegati al Parlamento furono prelevati di notte dalle loro case, deportati verso l’interno dell’Anatolia e massacrati lungo il tragitto. Altrettanti moriranno di stenti nei 4 anni successivi.

Paesi come gli Stati Uniti, la Germania e l’Olanda, per esempio, sono sempre stati alleati della Turchia; ma se da un lato questo li ha trattenuti per molti anni dal riconoscere il genocidio armeno, dall’altro il riconoscimento è infine arrivato, sfruttando ambigue dichiarazioni del leader turco Erdogan tra il 2016 e il 2019. Anche i parlamenti di 16 dei 27 Paesi della Ue hanno votato per il riconoscimento del genocidio armeno. Non Israele, Paese fondato da un popolo che ha subito un’analoga tragedia. In un editoriale su Haaretz nell’aprile del 2021 Elad Ben Aharon – che insegna Relazioni internazionali a Leiden – ha spiegato perché l’unicità del dolore e del genocidio appartiene soltanto agli ebrei. Scriveva: “C’è una questione fissa e basilare, che dipende in misura molto minore dalle relazioni esterne o dagli eventi esterni a Israele, ma che influenza in modo unico la politica israeliana rispetto al riconoscimento del genocidio armeno: la memoria dell’Olocausto come ‘unica’”. Per Israele, scriveva Ben Aharon, qualsiasi analogia con l’Olocausto viene vista come una banalizzazione del dolore ebraico, e questo rappresenta un “anatema della ‘condivisione’ del destino di vittime di genocidio, una paura di altre commemorazioni di genocidi, viste come se fossero in competizione con quella ebraica”.

Posizione forse non condivisibile ma non confutabile. Un politico meno stanco e confuso di Abu Mazen a Berlino per descrivere la tragedia palestinese avrebbe citato dei semplici numeri. Questi:

– 750.000 i palestinesi forzati all’esilio durante la Nakba dal 1947 al 1949;
– 13.000 i palestinesi uccisi durante la Nakba;
– 350.000 i palestinesi spinti all’esilio dalla guerra dei Sei giorni nel ‘67;
– 9.000.000 il numero totale dei rifugiati palestinesi fuori della Palestina e dentro la Palestina (Cisgiordania e Gaza);
– il 40% dei rifugiati nel mondo è palestinese;
– il 74% dei palestinesi è rifugiato;
– 58 sono i campi profughi riconosciuti dall’Onu in Giordania, Libano, Siria, in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza.

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