Per parlare di questo libro che affronta il tema dell’identità si è scelto di utilizzare il simbolo ə (ossia lo schwa) al posto del plurale maschile, in modo da includere tutto lo spettro dei generi

Chi l’ha detto che le rivoluzioni non possono partire da una maglietta rosa con l’unicorno? La battaglia per i diritti delle persone transgender di Camilla Vivian è iniziata da qui. Da un oggetto banale: “Mia figlia la voleva indossare e io proprio non capivo perché un maschio non potesse farlo”. Lo racconta lei stessa nell’introduzione del suo secondo libro Gender, libera tuttə (edito da Baldini Castoldi). È la lotta per difendere il diritto a indossare una semplice maglia che l’ha portata a interrogarsi, a studiare per capire cosa fosse l’identità di genere. E questo libro “di umanità e di denuncia” raccoglie in 500 pagine alcune storie che ha incontrato sulla sua strada. Un percorso iniziato 6 anni fa, quando ha deciso di condividere sulle pagine di un blog, miofiglioinrosa, la sua esperienza di madre di una bambina transgender, affiancando il suo vissuto a un impegno pubblico da attivista.

Dentro ci sono, ordinate per capitoli, oltre 30 testimonianze di persone trans di ogni età e delle loro famiglie, riportate sotto forma di email, messaggi, chat e conversazioni quotidiane. Oltre a molte interviste con domanda e risposta, realizzate con gentilezza e curiosità, mai imponendo giudizi. Insieme compongono l’immagine di una realtà, quella delle persone transgender, che esiste, lavora e va scuola, chiedendo di essere riconosciuta e rispettata. Ma che allo stesso tempo si scontra con una società impreparata, che non solo non le supporta, ma che non le prevede e non le ascolta. I racconti descrivono le trafile burocratiche estenuanti e confuse, lunghe anni, solo per ottenere documenti aggiornati. In molti casi, si aggiungono umiliazioni e l’imposizione di decine di visite, colloqui in ospedale e test infarciti di stereotipi. Quelli che si concentrano sulle preferenze sessuali, per esempio, riportati in maniera dettagliata nel libro. Scorrendo quelle domande viene spontaneo chiedersi cosa c’entrino con l’identità di genere.

“Tutto il materiale è trascritto da conversazioni reali” racconta l’autrice. “Sono storie di amicə, che fanno parte dei miei ultimi anni. Mi pareva giusto dare loro uno spazio per potersi raccontare, e non solo come persone trans. Far vedere il contrasto tra chi è come me e te, non una creatura aliena quindi, ma che allo stesso tempo è privatə di diritti fondamentali”. In Italia il dibattito pubblico tende a parlare delle questioni che ruotano intorno all’identità di genere assumendo sempre il punto di vista della maggioranza, ossia da chi si riconosce nel genere assegnato alla nascita (basti pensare alla discussione sul contenuto del ddl Zan). Per questo Vivian ha il grande merito di dare voce alle persone transgender in prima persona. “Da una parte credo sia importante rendere pubbliche delle storie in cui qualcunə si può riconoscere, così da riuscire a dare un nome al proprio sentire. Dall’altra è fondamentale far parlare le persone trans delle persone trans e fornire loro uno spazio di denuncia e di racconto. Perché nonostante siamo nel 2022, alcune cose sembrano uscite da The Danish Girl (racconto vero ambientato negli anni Venti, ndr). Pensiamo ai test medici, alla continua patologizzazione, alle visite obbligatorie. È giusto che queste cose si sappiano, perché si capisca che è una violazione dei diritti essere costrettə a sottostare a certe dinamiche”.

Nel libro si incontra tra le altre cose il racconto di Marta, 38 anni, che parla dell’umiliazione di quando fu costretta dal tribunale a subire una visita ginecologica per ottenere il cambio anagrafico (oggi in Italia, grazie a una sentenza della Cassazione del 2015 non è più indispensabile sottoporsi all’operazione chirurgica per ottenere la modifica dei dati anagrafici. Anche se il percorso in tribunale per vedere riconosciuto il nome di elezione può essere comunque molto lungo e faticoso). E poi le storie di Alessandra, Luca, Ramona, Giulia, Caterina, tuttə madri e padri di bambinə gender variant. O quella di Pietro, che oggi ha 30 anni e ricorda di quando la maestra pensava fosse un bambino triste. E invece era “una repressione forzata” perché “piuttosto che esprimermi come quello che non ero preferivo stare zitto e non fare nulla”. Nel mezzo anche le esperienze di chi vive all’estero, a Toronto o in Svizzera. Colpisce in particolare anche quella dell’autrice, residente da molti anni in Spagna. In un capitolo descrive il colloquio avuto con un medico dell’unità di identità di genere della Comunità Valenciana, facendo emergere il differente approccio rispetto aə professionistə italianə. “Se sottoponi le persone a terapie, test, attese, le fai sentire malate e diverse” le dice. “Perché una persona dovrebbe venire da me e dirmi che si sente di un genere se non è così?”. L’identità, insomma, in questo caso non è concepita come una concessione.

Pagina dopo pagina il libro si svela come una sorta di manifesto dell’autodeterminazione, che denuncia e insieme offre storie di amore e comprensione. Racconti che costringono a distruggere schemi, a fare, come scrive l’autrice, una sorta “ginnastica mentale” per riuscire a oltrepassare i confini ai quali siamo assuefattə. E sorprendersi di quanto possa essere liberatorio. “Vorrei che questo libro arrivasse soprattutto aə non addettə ai lavori, che non conoscono questa realtà. A coloro che magari mandano avanti lo stigma per automatismo, senza rendersi conto che il problema arriva dalla società, non dalle persone trans. La mia speranza insomma è che si possa raggiungere una maggiore consapevolezza, per arrivare a poi un cambiamento nella società”. Ed è così che si scopre che il gender può davvero liberare tuttə.

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