“Migrante ucciso in strada a bastonate” (la Repubblica), “Ambulante ucciso in mezzo alla gente” (Corriere della sera), “Ambulante ucciso in mezzo alla gente” (Il Fatto Quotidiano). Solo La Stampa, tra i quotidiani mainstream, ha messo la parola “uomo” nel titolo dell’articolo relativo all’atroce delitto commesso a Civitanova Marche (“Ucciso un uomo che chiedeva l’elemosina”). Eppure ha un nome, la vittima, si chiama Alika Ogorchukwu, un’età, 32 anni, e una patria, la Nigeria. Non importa, la sua vita si è ridotta a due sostantivi.

Un episodio di violenza, ai danni di una persona, per mano di una persona violenta, accaduto in pieno giorno in una strada centrale della città. Ma non è solo questo che fa male. Ciò che fa ancora più male è che molti dei presenti abbiano scelto di filmare, fotografare l’episodio, invece di intervenire. Lo spettacolo era per loro più importante della vita di un uomo e provare di essere lì più urgente dell’impegnarsi a salvarlo. Questo dovrebbe farci preoccupare. Certo il delinquente, ma quello è un’eccezione, è fisiologico che in ogni comunità ci siano dei dementi crudeli, ma che gli altri, la maggioranza stia guardare, peggio, a filmare, è un segno terribile. Significa che “condividere” sulla rete è divenuto più importante che condividere l’esistenza di una persona.

Fare vedere agli amici cosa succede vuole dire non essere lì, non in quella via, non in quel momento, ma essere dietro a uno schermo, che ti ingoia, per portarti in un gorgo di narcisismo, di individualismo, di ignoranza dell’altro. È giusto puntare il dito sull’assassino. Lo è altrettanto farlo verso chi non ha fermato la sua mano.

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