Passano le ore e si chiarisce il contesto in cui si è consumato il destino della piccola Diana, abbandonata dalla madre, Alessia Pifferi, in un piccolo appartamento alla periferia di Milano e lì, lasciata morire di fame e di sete. Le sue ultime ore di vita sono uno scenario irricevibile che ci fa auspicare l’ipotesi meno angosciante ovvero che quella boccetta di benzodiazepine lasciata sul suo lettino sia stata un passaggio inconsapevole dal sonno alla morte. L’amara consolazione di un atto di pietà che possa aver risparmiato ore e giorni di tormento ad una bambina di 16 mesi.

Durante l’interrogatorio in Procura, Alessia Pifferi è apparsa lucida, è stata ritenuta capace di intendere e di volere ma priva di emozioni e sentimenti. Al giudice ha detto che sapeva che la bambina poteva morire ma non ha fatto nulla per salvarla, nessun ripensamento fino alla fine. I quotidiani hanno raccontato la cronaca di una morte annunciata di cui nessuno si è accorto e hanno fatto il ritratto di una donna che ha vissuto tutta la vita sull’orlo di una voragine. E in quel vuoto ha lasciato precipitare la figlia fin da quando l’ha messa al mondo. Di Diana non esistono foto e video. Non era stato festeggiato il suo primo compleanno e la festa annunciata per un battesimo che non c’era mai stato, era una bugia che teneva in piedi una parvenza di normalità.

Una madre che non riusciva ad essere madre. Rivendicava “i propri spazi” e diceva che “voleva respirare” ma lo spazio e il respiro che pretendeva per se stessa esigevano la cancellazione dello spazio e del respiro della figlia, l’assenza di qualunque affetto o empatia si sono concretizzati in un aut aut: “o io o lei”. Entrambe non potevano coesistere.

Chi è Alessia Pifferi? La domanda ci inquieta e forse non avrà risposte nemmeno per gli psichiatri che l’esamineranno anche se rintracceranno nei manuali diagnostici qualche patologia.

Alessandra Kustermann, medica del Servizio di soccorso violenza sessuale e domestica (Svsed) del Policlinico di Milano, oggi in pensione, ha parlato di una “impermeabilità emotiva” che ha impedito ad Alessia Pifferi di chiedere aiuto; Matteo Lancini, psicologo della Fondazione Minotauro, intervistato da la Repubblica, ha parlato di una madre che cancellava il futuro della figlia e di cui nessuno si era accorto ed ha ipotizzato che si sarebbe attivato un processo di “adultizzazione della figlia che va sicuramente indagato”; lo psichiatra Luigi Cancrini ha commentato sulla sua pagina facebook: “Il Gip l’ha vista ‘lucida’ e non ha chiesto una perizia psichiatrica ma 60 anni di attività nel campo della psichiatria mi permettono di affermare tranquillamente che quella madre, la madre che non piange e appare vestita di rosso con un sorriso freddo stampato sul viso sulle pagine di tanti giornali, soffre di un disturbo psicotico di cui avrebbe dovuto essere curata già da molto tempo”.

Nessuno sguardo si è mai soffermato su Alessia e Diana Pifferi abbastanza tempo per vedere. La prima viveva un’apparenza che copriva a malapena una voragine interiore e la seconda era destinata all’invisibilità fin dalla nascita. Nessuno è riuscito a guardare oltre l’apparenza di Alessia Pifferi o a squarciare l’invisibilità di Diana, né un vicino di casa, né un’amica, né un altro famigliare.

Ci sono purtroppo molti inferni famigliari dentro i quali ogni tanto qualcuno guarda: l’insegnante che coglie cambiamenti di umore in qualche alunno o si accorge di lividi e avvisa i servizi sociali, il vicino di casa che sente urla provenire dall’appartamento a fianco, il negoziante che si accorge che l’anziana non va più a fare la spesa.

Ha ragione da vendere lo psichiatra Luigi Cancrini quando spera che “qualcuno si accorgerà un giorno del fatto che la gravidanza, la nascita ed i primi anni di vita possono e dovrebbero essere protetti da una rete capillare di servizi capaci di intervenire nelle situazioni in cui le persone stanno troppo male per chiedere aiuto? I bambini che muoiono psicologicamente e moralmente per la trascuratezza di genitori malati e solo apparentemente lucidi sono molti di più di quelli di cui si parla in cronaca”.

Non possiamo pensare di contare sugli occhi e le orecchie di vicini di casa o negozianti o famigliari forse anch’essi sull’orlo di abissi personali e affanni interiori, dobbiamo pensare a progetti e a servizi per creare luoghi di ascolto e creare possibilità di intervento.

Simona Messori, una assistente sanitaria con la quale mi sono confrontata sull’assassinio della piccola Diana si è lasciata andare ad uno sfogo: “Sono anni che i consultori si sono svuotati di significato. Si facevano gli incontri con le madri dopo il parto. Si seguivano madri che erano a rischio depressione post partum o madri segnalate dai servizi perché sole o in difficoltà. Si entrava nelle loro case non per controllare ma per aiutare anche facendo cose insieme tipo il primo bagnetto o la medicazione del cordone ombelicale. E si apriva un mondo. Vissi quell’esperienza faticosa ma gratificante. E nessuno di quei bambini ha mai avuto a che fare con i servizi sociali. Ma si mettevano in campo assistenti sanitarie ed educatrice e si parlava ogni martedì ad una equipe multidisciplinare. Oggi mi rendo conto che non è rimasto più nulla”.

Ma in un mondo che brucia, i governi compreso il nostro, continuano ad investire in armi e nello stesso tempo si taglia il welfare smantellando scelleratamente quelle reti che potrebbero salvare se non tutte, molte piccole Diana in bilico su abissi nei quali le lasciano scivolare madri o padri incapaci di prendersene cura.

Perseverare con queste politiche significa continuare a giocare a dadi con la vita dei più indifesi.

@nadiesdaa

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