di Roberto Iannuzzi*

Ancora una volta, questa settimana, i paesi occidentali si sono riuniti in due appuntamenti, il G7 nelle Alpi bavaresi ed il vertice Nato di Madrid, per rimarcare la nuova contrapposizione fra blocchi che ormai dividerebbe il mondo. Secondo la retorica occidentale, da un lato vi sarebbero le democrazie schierate a difesa della libertà e della legalità internazionale, dall’altro le autocrazie guidate da Russia e Cina. All’ordine del giorno, sostegno militare all’Ucraina, guerra economica a oltranza alla Russia (malgrado i terribili “effetti collaterali” che stanno schiacciando le economie occidentali), adesione di Finlandia e Svezia all’Alleanza Atlantica con il beneplacito turco (e relativa svendita della questione curda per compiacere Ankara), nuovo “concetto strategico” della Nato che di fatto accomuna Russia e Cina in un nuovo asse in opposizione all’Occidente.

Annunciando la partnership for Global Infrastructure and Investment (in realtà, solo la ridefinizione di un velleitario progetto per contrastare la Cina, già noto col nome di Build Back Better World), il presidente americano Joe Biden ha sostenuto che “quando le democrazie dimostrano ciò che possiamo fare, tutto ciò che abbiamo da offrire, non ho dubbi che vinceremo la competizione ogni volta”. Biden ha così voluto sottintendere che il successo della democrazia occidentale sarebbe legato a una qualche forma di competizione geopolitica, piuttosto che alla corretta implementazione dei principi democratici in Occidente. Gli ha fatto eco sull’Ucraina il premier italiano Mario Draghi, affermando che “siamo uniti con l’Ucraina, perché se l’Ucraina perde, tutte le democrazie perdono”. Secondo Draghi, il successo della democrazia sarebbe legato al sostegno ad un paese dalle dubbie credenziali democratiche (il cui governo perseguita oppositori, attivisti e giornalisti) in un conflitto che avrebbe potuto essere evitato, piuttosto che alla reale applicazione dei principi di libertà, uguaglianza e rappresentanza all’interno delle democrazie occidentali. “Se l’Ucraina perderà, sarà più difficile sostenere che la democrazia è un modello di governo efficace”, è la tesi alquanto discutibile di Draghi.

Similmente, secondo il premier britannico Boris Johnson, l’elevata inflazione e i miliardi di dollari che Biden sta spendendo sull’Ucraina sono “un prezzo che vale la pena pagare per la democrazia e la libertà”. Per altro verso, Johnson non ha dubbi sulle credenziali democratiche degli Stati Uniti, che a suo dire rimangono “un incredibile garante di valori, democrazia, libertà nel mondo”. Le tesi di Biden, Draghi e Johnson sono ben riassunte nel concetto di “alleanza delle democrazie”, un vecchio pallino del presidente americano, che in concreto puntava a dividere il mondo in due fronti incompatibili fra i quali non poteva esservi dialogo né intese. L’idea prese corpo lo scorso dicembre nel primo vertice per la democrazia, convocato da Biden per consolidare una sorta di fronte ideologico da contrapporre a Mosca e Pechino. Ma gli ultimi decenni indicano che la democrazia in Occidente, più che essere “minacciata” da attori esterni come Russia e Cina, è stata compromessa dalle scelte politiche dei governi occidentali. “There is no alternative” fu uno slogan caro alla premier britannica Margaret Thatcher, per indicare che non vi erano opzioni al di fuori della deregulation dei mercati, dei tagli di spesa e dello smantellamento dello stato sociale.

Deindustrializzazione, finanziarizzazione dell’economia, precarizzazione del lavoro, inasprimento delle disuguaglianze, sono un lascito della globalizzazione neoliberista. La logica dell’emergenza, che permetteva la “sospensione” di alcuni principi democratici, cominciò ad affermarsi a partire dalla reazione americana all’11 settembre. Il tracollo finanziario del 2008 sancì il fallimento del neoliberismo e di un sistema fondato sull’indebitamento di famiglie e istituzioni finanziarie. Invece di punire i responsabili della crisi, le élite governative occidentali puntarono su misure di austerità e su un’ulteriore erosione dei diritti delle classi medio-basse. Ciò ha comprensibilmente accresciuto il malcontento. Secondo un recente studio, in meno di 15 anni i movimenti di protesta in tutto il mondo sono più che triplicati, alimentati in Occidente dal declino degli standard democratici, dalla corruzione e dall’ingiustizia sociale. In base alla “logica dell’emergenza”, tuttavia, nei paesi “avanzati” si è preferito demonizzare ogni forma di dissenso.

Nel frattempo, guerre commerciali, fallimentari politiche energetiche, lockdown e ridefinizione delle catene di fornitura in chiave anti-Covid, hanno ulteriormente aggravato una situazione economica mai risanata dopo il 2008, alimentando una nuova fiammata dell’inflazione ben prima dello scoppio del conflitto ucraino. Tutto ciò ha poco a che fare con la “minaccia” rappresentata da Russia e Cina. L’impressione, semmai, è che ai leader occidentali, alle prese con una crisi di legittimità sempre più marcata, possa tornare utile un “nemico esterno”, per addossargli la colpa delle sofferenze economiche inflitte alle proprie popolazioni, e per giustificare la continua sospensione dei principi democratici sulla base di una sequela ininterrotta, ed ormai ventennale, di emergenze – terroristica, economica, sanitaria, ed ora geopolitica. Esternalizzare la crisi, tuttavia, oltre a non risolvere i problemi che l’hanno prodotta, rischia di inasprire i conflitti internazionali già in atto, e di farne scoppiare di nuovi, rendendo ancor più pericolosa la situazione complessiva in cui versa il pianeta.

*Autore del libro “Se Washington perde il controllo. Crisi dell’unipolarismo americano in Medio Oriente e nel mondo” (2017).

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