di Massimo Cavalletti

La sconfitta della nazionale in Germania non mi stupisce. Non mi ero unito al coro di peana che, dopo la risicata vittoria contro l’Ungheria e un paio di brutti pareggi, inneggiava alla rinascita del team azzurro. Forse fa male dirlo, ma il calcio italiano, a livello di squadre di team e di nazionale, è profondamente in crisi; una crisi che ha radici lontane nel tempo. D’altra parte non avevamo fallito anche l’appuntamento mondiale del 2018? Due mondiali consecutivi senza Italia sono un qualcosa che il calcio nostrano non può sopportare, ma che segnala uno stato di crisi quasi cronico che se non verrà affrontato subito con misure efficaci rischia di condannare l’Italia, quattro volte campione del mondo, a vivacchiare nelle parti basse del ranking mondiale e a rischiare di essere esclusa dalle competizioni che contano.

Non avevo previsto un futuro roseo nemmeno dopo il successo agli Europei, pur seguendo con entusiasmo le vicende dell’undici azzurro e ritenendolo più che meritato. Lo avevo preso come una sorprendente parentesi di bel gioco e di risultati in anni di vacche magre. Sono infatti sette-otto anni che la Nazionale ci offre spettacoli mediocri anche contro squadre mediocri. La carenza di calciatori italiani nelle squadre di serie A è senz’altro un handicap perché se non giochi ad alto livello, il percorso di crescita è molto più lungo, difficile e faticoso. Ma un altro elemento che secondo me riveste notevole importanza è la mentalità che si inculca nei ragazzi che militano nelle file delle giovanili.

Il calcio italiano è asfissiato dal dominio assoluto della tattica. Si disserta di 3-4-2-1, 4-4-2 e via dicendo. I calciatori sono addestrati a fare determinati movimenti in campo e, soprattutto, a non assumersi dei rischi con passaggi difficili o iniziative che rischiano di essere bloccate sul nascere dagli avversari. Vedere un passaggio in profondità è diventato quasi una rarità, la specializzazione del dribbling sembra scomparsa in Italia. Ultimamente solo lo Spinazzola degli Europei ha rinverdito una tradizionale figura del calcio che fu. In generale in una partita si assiste a una lunghissima e stucchevole serie di passaggi laterali fatti per non rischiare le ripartenze degli avversari. E’ difficile vedere un passaggio in verticale, lanci in profondità.

Si dirà che ciò è reso molto difficile dal posizionamento degli avversari in campo. Ma se non si prova, che senso ha mantenere il possesso palla nella propria metà campo con il pericolo di un errore fatale sul pressing degli avversari? Per non parlare della balzana idea di far cominciare l’azione dal portiere che spesso porta in gol gli avversari? Se devo perdere la palla, più lontano dalla mia porta la perdo e meglio è. E per fare gol, devo attaccare, occupare la metà campo avversaria. Insomma, si insegna ai giovani a non osare, a rifugiarsi sempre nel facile, a preferire il passaggio laterale o all’indietro rispetto a quello in avanti, a evitare dribbling e iniziative personali che abbiano anche una minima possibilità di fallimento. E lo si insegna in modo molto puntiglioso come si evince dalla postura dei corpi che ricevono palla. Fateci caso: il giocatore che aspetta la palla si posiziona quasi sempre col corpo rivolto verso la sua porta, perché già sa che la passerà nuovamente indietro.

Per vincere servono qualità tecniche, fisiche, tattiche, ma anche un pizzico di intraprendenza, di follia creativa, di voglia di osare. Senza queste qualità, che sono di atteggiamento mentale, si va poco lontano, come gli eventi di questi ultimi anni ci insegnano. E allora un primo passo verso la rifondazione di un calcio asfittico parte secondo me da questo: si insegni ai giovani calciatori a prendersi responsabilità, a rivalutare l’iniziativa personale nell’ottica di un arricchimento dello sforzo collettivo; si dia spazio alla creatività e non si mortifichi chi la possiede dentro schematismi rigidi e grigi; si renda ai giovani la capacità di divertirsi con un pallone.

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