C’è modo e modo di perdere. E questo è uno dei peggiori. La cavalcata lanciata oltre un anno fa, con grandi squilli di tromba, da Lega e Partito radicale per riformare la giustizia nelle urne – contando sull’indignazione popolare innescata dal caso Palamara – partorisce il referendum meno partecipato di sempre: poco superiore al 20,9%, un dato che peggiora il precedente record negativo (il 23,3% alla consultazione sulla legge elettorale nel 2009). Il quorum del 50% degli elettori più uno, necessario per la validità del voto, resta a distanza siderale, molto maggiore di quella (già ampia) che ipotizzavano i sondaggi. I dati definitivi dicono che il quesito sulla separazione delle funzioni dei magistrati raccoglie il 20,93% di partecipazione, così come quello che voleva vietare di applicare misure cautelari per il rischio di reiterazione del reato. Il 20,92% sull’abolizione delle 25 firme per candidarsi al Csm, il 20,95% (il dato più alto, si fa per dire) sull’abrogazione del decreto Severino. Il referendum più tecnico, quello sul voto degli avvocati nei consigli giudiziari, raccoglie il 20,92%.

Un’ampia percentuale di no – E non è tutto, perché un’ottima parte di quelli che sono andati alle urne – dicono i dati finali – lo ha fatto per votare no. I contrari superano il 40% sui quesiti su cautelari e Severino (rispettivamente 43,88% e 46,03%) e si assestano ben oltre il 20% sugli altri tre. Di fatto, quindi, solo un italiano su dieci – cioè cinque milioni sui 51 aventi diritto al voto – ha votato per abrogare il decreto anti-corruzione del 2012 e riaprire le porte ai condannati definitivi in Parlamento, al governo e nelle amministrazioni locali, o per impedire ai giudici di applicare misure cautelari per il rischio di reiterazione dei reati non violenti (salvando così colletti bianchi, ladri e spacciatori). Mentre gli altri tre referendum erano del tutto respingenti per il comune cittadino: basta pensare che il quesito sulla separazione delle funzioni era lungo 7.500 battute, un’intera pagina di giornale, mentre di consigli giudiziari e tecnicalità per le candidature al Consiglio superiore della magistratura la gran parte degli elettori sono (comprensibilmente) digiuni.

La disfatta leghista – L’esito è una figuraccia in particolare per la Lega e per Matteo Salvini, che in nome della foga anti-magistrati ha mandato all’aria anni di proclami sulla sicurezza e il carcere per i reati da strada: il segretario è persino arrivato al paradosso di festeggiare le misure cautelari applicate ai presunti spacciatori del Pilastro di Bologna (tra cui la famiglia della famosa “citofonata” nel gennaio 2020) senza rendersi conto, o peggio nascondendo con dolo, che se il suo referendum fosse passato quelle stesse persone sarebbero rimaste a piede libero. Con questa debacle il leghista conferma di aver perso del tutto il “tocco magico” che, fino a qualche anno fa, gli permetteva di intercettare come un’antenna gli umori del Paese: la sua faccia rimarrà associata a un’iniziativa incomprensibile e confusa. E nemmeno a costo zero: si è calcolato che l’election day sull’intero territorio nazionale costa intorno ai quattrocento milioni di euro. Considerando che circa un quinto degli elettori – nove milioni su 46 – sarebbero stati comunque chiamati al voto per le comunali (ma con spese leggermente inferiori), l’esborso dello Stato per i cinque referendum può stimarsi oltre i trecento milioni.

La raccolta firme fantasma – La campagna, d’altra parte, era nata sotto una cattiva stella. Nonostante l’iniziale entusiasmo, già dalla scorsa estate i promotori avevano dovuto incassare il parziale forfait di Giorgia Meloni, che aveva smarcato Fratelli d’Italia dai quesiti su cautelari e Severino, definiti “figli più della legittima cultura radicale che della destra nazionale”: “Sicurezza e lotta alla corruzione sono valori non negoziabili“, aveva scandito. Ora il vice di Salvini, Andrea Crippa, se la prende anche con lei: “Da parte di Berlusconi e di Forza Italia qualche sostegno c’è stato, da parte di altri partiti il silenzio è stato piuttosto assordante“, attacca. Sulle firme, poi, è rimasto un velo di mistero: il comitato promotore dice di averne “più di quattro milioni” (tra le 700 e le 750mila per ogni quesito), ma nessuno le ha mai viste, perché nel bel mezzo della raccolta Salvini ha preferito far votare i quesiti dai consigli regionali “amici” (quelli a maggioranza di centrodestra) e non ha mai depositato le sottoscrizioni popolari, provocando la rabbia del Partito radicale. Ad azzoppare del tutto lo slancio poi ci ha pensato la Corte costituzionale, dichiarando illegittimo – lo scorso febbraio – il quesito più popolare dei sei originari, quello sulla responsabilità civile diretta dei magistrati, oltre ai due dell’associazione Coscioni su eutanasia e cannabis che avrebbero garantito l’effetto traino.

Il forfait di Salvini (e la teoria del complotto) – Da quel momento Salvini inizia gradualmente a distaccarsi dalla causa, fino a ignorarla del tutto per mesi interi. E se ne accorgono quei politici che ai referendum – a differenza sua – tengono davvero, pur non facendo parte del comitato promotore: “Sembra che non gli interessino più”, commenterà gelida Emma Bonino. Quando la diserzione inizia a diventare un po’ troppo smaccata, ecco l’inversione a U: il leghista annuncia in tv una “mobilitazione generale” con “centinaia di gazebo in tutta Italia per informare sui referendum” (mai visti) e inizia a denunciare ogni giorno una presuntacensura” dei quesiti sui media. Accanto a lui l’ex ministro Roberto Calderoli che – riscopertosi convinto garantista – si è lanciato addirittura in uno sciopero della fame di pannelliana memoria, e ora parla apertamente di un “complotto” per non far raggiungere il quorum. Nella sera della disfatta, però, il segretario abbandona un’altra volta la nave: “Matteo Salvini (che è fuori città con la figlia) è atteso in sede domani per il consiglio federale e la riunione urgente sulla situazione economica”, fa sapere l’ufficio stampa della Lega. “Grazie ai dieci milioni di italiani che hanno scelto di votare per cambiare la giustizia”, si limita a twittare il Capitano. E a fare l’analisi della sconfitta restano i suoi mozzi.

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Referendum, dopo la debacle Salvini non si presenta mentre Calderoli invoca il complotto e punta il dito contro gli alleati: “Poco sostegno”

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