Il terzo quesito (scheda gialla) è uno dei più lunghi e contorti mai proposti in un referendum: ben 7.500 caratteri, un’intera pagina di giornale. Il motivo? Si vorrebbero abrogare, una per una, tutte le norme – contenute in vari testi di legge – che fanno riferimento alla possibilità dei magistrati italiani di passare dalla funzione di pubblico ministero a quella di giudice e viceversa. Il titolo, infatti, è “Separazione delle funzioni dei magistrati”. “Separazione delle funzioni” è un concetto diverso da “separazione delle carriere“, la storica battaglia di Silvio Berlusconi (che la definì la “riforma simbolo” mai realizzata per colpa degli alleati di governo): per distinguere le carriere dei magistrati giudicanti e requirenti, prevedendo concorsi e inquadramenti separati, servirebbe infatti una modifica della Costituzione, che parla di un unico ordine giudiziario. Ciò che invece vuole ottenere il referendum è obbligare il magistrato a scegliere quale funzione ricoprire all’inizio della carriera, senza poterla più cambiare in seguito.

In realtà la possibilità di cambiare funzioni è già stata ristretta a tal punto da renderla un’eventualità rarissima. Nel 2006, infatti, la riforma dell’ordinamento giudiziario dell’ex ministro Roberto Castelli ha impedito ai pm di diventare giudici (e viceversa) nel territorio della stessa regione. Inoltre ha imposto un limite massimo di quattro passaggi di funzioni. Risultato: negli ultimi sedici anni – dal 2006 al 2021 – i giudici diventati pm sono stati in media 19 all’anno, i pm diventati giudici 28 all’anno. Poiché il numero medio dei magistrati in servizio nel periodo è di 8.620, a trasformarsi in pm ogni anno sono stati appena due giudici su mille, a trasformarsi in giudici tre pm su mille. La separazione delle funzioni, quindi, esiste già nei fatti. Non solo: con la riforma Cartabia già approvata alla Camera e in discussione al Senato, su insistenza dei partiti di centrodestra, il limite è stato abbattuto a un solo passaggio di funzioni, per di più da esercitare entro i primi dieci anni di carriera. “La tappa finale di un percorso di aggiramento della Costituzione”, l’ha definita il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Giuseppe Santalucia.

Chi appoggia il referendum – per esempio gli organi di rappresentanza degli avvocati – sostiene che la separazione delle funzioni garantirebbe fino in fondo l’imparzialità dei giudici rispetto ad accusa e difesa: sul sito del comitato promotore si legge che la “contiguità tra il pubblico ministero e il giudice (…) crea uno spirito corporativo tra le due figure e compromette un sano e fisiologico antagonismo tra poteri, vero presidio di efficienza e di equilibrio del sistema democratico”. Chi si oppone, invece, fa notare che proprio il fatto che giudici e pm appartengano allo stesso ordine garantisce la cosiddetta “cultura della giurisdizione” dei magistrati dell’accusa, cioè la loro sensibilità (almeno teorica) anche alle ragioni degli accusati. Se le funzioni fossero separate – avvertono – il rischio è di trasformare i pm in “super-poliziotti” ciechi rispetto a diritti e garanzie. E soprattutto di aprire la strada a una vera e propria separazione delle carriere, che non potrebbe che portare a una sottoposizione delle Procure alla politica. Un punto di vista riassunto da Piercamillo Davigo sul Fatto: “La miglior garanzia per i cittadini è che il pubblico ministero ragioni come un giudice. Allontanarlo da una comune cultura non aumenta la tutela dei diritti ma la diminuisce.

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