Il referendum numero 1 (scheda rossa) è il più semplice di quelli al voto il 12 giugno: “Volete voi che sia abrogato il Decreto Legislativo 31 dicembre 2012, n. 235?”. Si tratta del cosiddetto decreto Severino, il primo dei tre decreti delegati previsti dalla legge anticorruzione voluta nel 2012 da Paola Severino, ministra della Giustizia del governo Monti. Il nome completo è “Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi”. La legge delega, varata sull’onda dello scandalo Fiorito e delle indagini sulle spese pazze dei consiglieri regionali, fu approvata quasi all’unanimità (480 sì, 19 no e 25 astenuti nell’ultimo passaggio alla Camera): votò a favore tutto il centrodestra, compresa la Lega, che ora promuove i referendum insieme al Partito radicale. Paradossalmente, l’unico partito a votare contro fu il più legalitario, l’Italia dei Valori di Antonio Di Pietro, che giudicava il provvedimento troppo blando.

L’incandidabilità/ineleggibilità – Il decreto legislativo che si vuol cancellare prevede – in primo luogo – l’impossibilità di candidarsi o essere eletti a Camera, Senato e Parlamento europeo o di assumere incarichi di governo per tre categorie di pregiudicati: 1) i condannati definitivi a più di due anni per associazione mafiosa, terroristica o finalizzata a commettere reati gravissimi come schiavitù, prostituzione minorile e traffico internazionale di droga; 2) i condannati definitivi a più di due anni per tutti i delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione (corruzione, concussione, peculato, malversazione, induzione indebita a dare o promettere utilità); 3) i condannati definitivi a più di due anni per qualsiasi altro reato punito con una pena massima non inferiore a quattro anni.

La decadenza – Se la condanna diventa definitiva durante il mandato parlamentare (o l’incarico di governo) è prevista la decadenza dalla carica: nel caso dei parlamentari, a sancirla è un voto della Camera di appartenenza. Il caso più celebre è quello di Silvio Berlusconi, dichiarato decaduto dal Senato il 27 novembre 2013 dopo la condanna definitiva a quattro anni per frode fiscale. La stessa sorte è toccata a un suo vecchio amico, Giancarlo Galanl’ex governatore veneto che perse il seggio da deputato dopo il patteggiamento per corruzione – mentre un altro, l’ex direttore del Tg1 Augusto Minzolini, fu clamorosamente salvato dall’Aula di palazzo Madama, che in barba alla legge disse no alla decadenza con il contributo decisivo dei franchi tiratori del Pd. L’incandidabilità e l’ineleggibilità durano almeno sei anni, a meno che non intervenga sentenza di riabilitazione penale (ottenuta da Berlusconi nel 2019).

La sospensione dalle cariche – Più severa la disciplina che riguarda i consiglieri e gli assessori regionali e comunali, i sindaci e i governatori. Qui l’incandidabilità, l’ineleggibilità e la decadenza scattano anche in caso di condanna definitiva superiore ai due anni per qualsiasi reato non colposo (a prescindere da quale sia il massimo della pena). Non solo: gli articoli 8 e 11 del decreto prevedono una “sospensione di diritto” dalle cariche regionali e locali anche a seguito di condanne non definitive, per un periodo massimo di 18 mesi. Per farla scattare basta una condanna in primo grado per i reati di associazione mafiosa (o finalizzata a commettere altri reati gravissimi), traffico di stupefacenti, peculato, concussione, corruzione, abuso d’ufficio e altri reati contro la pubblica amministrazione. Per tutti gli altri reati non colposi, invece, la condanna dev’essere confermata in appello e non dev’essere inferiore ai due anni di reclusione.

Le posizioni politiche – Proprio queste ultime sono le norme più contestate – e più applicate – del decreto: grazie a loro sono stati sospesi dalle rispettive cariche (con alterne vicende) l’ex presidente della Calabria Giuseppe Scopelliti, l’ex sindaco di Napoli Luigi De Magistris, l’ex governatore campano Vincenzo De Luca, il sindaco di Catania Salvo Pogliese. Il meccanismo della sospensione è stato sottoposto più volte all’esame della Corte costituzionale, che ne ha sempre sancito la legittimità. Ma continua a incontrare antipatie tra i sindaci e gli amministratori locali, che criticano l’inclusione tra i “reati-presupposto” di fattispecie minori come l’abuso d’ufficio e il peculato. Pochi giorni fa anche il segretario del Pd Enrico Letta ha espresso la volontà di modificare alcuni aspetti della Severino, pur giudicando sbagliato lo strumento del referendum. Mentre Giorgia Meloni, già dai tempi della raccolta firme, si è smarcata dal resto del centrodestra su questo quesito, definendo l’eventuale abrogazione “un passo indietro nella lotta alla corruzione“, che darebbe “ad alcuni magistrati il potere di scegliere quali politici condannati far ricandidare” e invitando a votare no.

Le conseguenze del sì – La vittoria del sì infatti avrebbe l’effetto di cancellare del tutto il decreto, riportando nella discrezionalità del giudice la scelta di applicare o meno – in sede di condanna – la pena accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici, che ha lo stesso effetto in termini di incandidabilità e ineleggibilità, ma si applica in casi molto più ristretti. Con la “scusa” di rimodulare il meccanismo della sospensione, insomma, si finirebbe per riaprire le porte del Parlamento e dei ministeri a condannati definitivi per reati gravissimi. Come ha scritto Piercamillo Davigo sul Fatto, “nessuno, con simili precedenti penali, potrebbe accedere a concorsi pubblici per impieghi civili o militari e quindi non si comprende perché invece dovrebbe essere consentito accedere ai vertici del potere legislativo o esecutivo. Evidentemente i promotori del referendum prediligono invece che importanti cariche pubbliche possano essere ricoperte da simili soggetti. Vi è da chiedersi che idea abbiano delle istituzioni“.

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