Recentemente ho parlato con un giovane 35enne che ha provato il concorso da magistrato ed è stato bocciato. Si tratta di ragazzo laureato col massimo dei voti in Giurisprudenza, che ha attuato tre anni di dottorato di ricerca, che ha superato al primo tentativo l’esame per l’avvocatura e studia tutti i giorni questioni giurisprudenziali. Mi ha raccontato che gli argomenti usciti negli esami erano da lui ben conosciuti, che era ed è convinto di aver argomentato correttamente.

L’arroganza dei commissari di esame che hanno promosso 250 persone su quasi quattromila è stata pari alla loro cattiveria nel far trapelare che il modo di esporre degli esaminandi era costellato di “errori marchiani di concetto, di diritto e di grammatica”. Guardando a come vengono scritte le sentenze e le leggi dai magistrati non mi pare che siano tutti fenomeni. Nel concorso per notaio ogni volta, come per la magistratura, non vengono ricoperti tutti i posti disponibili. Il pensiero maligno che è stato espresso sulle categorie dei notai e dei magistrati è che utilizzino i concorsi per scoraggiare i giovani ad intraprendere la professione e mantenere i loro privilegi di casta, ammettendo un numero di vincitori inferiore ai bisogni.

In questi giorni è stato riportato il caso di un giovane che ha partecipato al concorso per accedere all’insegnamento scolastico in materie scientifiche. Ai concorrenti che dovevano risolvere problemi che richiedevano dei conti è stato impedito, durante l’esame, di utilizzare dei fogli di carta (forse per paura che copiassero). Per ovviare alla mancanza di fogli molti concorrenti hanno fatto queste somme e sottrazioni, scrivendo sulla pelle del braccio o delle mani. Negli stessi giorni emerge un’indagine in cui sono implicati 190 professori universitari, alcuni intercettati telefonicamente, che secondo gli inquirenti truccavano i concorsi per far vincere il loro prescelto.

Queste notizie avvalorano l’idea che il meccanismo di concorsi per accedere alle professioni pubbliche sia assolutamente inadeguato. Affidare a quiz o domande cervellotiche ( spesso avulse dalla realtà del lavoro che nella concretezza si andrà a svolgere) la scelta del vincitore è sballato perché in poche ore si condiziona la vita e il futuro di tante persone. Non è possibile selezionare i migliori in alcuni minuti, quando solo sul campo si possono comprendere le vere capacità delle persone. L’inamovibilità del vincitore rende molto ambito il ruolo in quanto, una volta vinto il concorso, si può riposare sugli allori senza più rischi di perderlo.

Questo è il vero problema presente in tante professioni pubbliche che premiano gli scansafatiche. Purtroppo molti vincitori una volta superato il concorso, cominciano a tirare i remi in barca, smettono di aggiornarsi e lavorano il meno possibile. Pur essendo una minoranza i nullafacenti condizionano negativamente anche il lavoro della maggioranza laboriosa.

Occorrerebbe attuare una rivoluzione in cui per prima cosa si dovrebbe togliere a certe attività l’inamovibilità (come accade in altri paesi europei). Magistrati, notai, professori universitari, avvocati, medici e in generale tutte le professioni di rilevante impatto sociale non dovrebbero essere costituite da persone col posto fisso (alla Checco Zalone). Il desiderio personale di raggiungere una certa stabilità cozza con l’esigenza sociale di trovare in questi ruoli persone motivate che devono dare il meglio per migliorare la società.

Una volta abolita l’inamovibilità, il posto dovrebbe essere assegnato temporaneamente per 5 anni, in base al curriculum, alla conoscenza personale del modo di lavorare e a colloqui motivazionali in cui chi sceglie, temporaneamente, quella persona si assume la responsabilità del suo operato (se il servizio funzionerà male anche colui che ha attuato le scelte dovrà essere rimosso). Alla fine dei 5 anni dovrebbe esserci una nuova valutazione, con la possibilità di rimanere nello stesso incarico, assieme però all’opzione di cambiare ruolo, in base ai risultati raggiunti.

Forse questa è una visione utopica, visto che in Italia tanti “tengono famiglia”, desiderano per il loro figliolo, per l’amante o per il loro “lecchino” un posto fisso che permetta un reddito certo a vita, senza alcun confronto con la competizione. Facile è essere liberali e a favore del libero mercato con gli altri, meno con se stessi. Perdere certi privilegi è difficile e quindi consorterie di potere vario non accetteranno mai di rendere la loro poltrona contendibile. Il concorso pubblico, con le sue cervellotiche modalità, alla fine accontenta tutti. Si può provare (spesso ci si riesce) a truccarlo e condizionarlo, offre anche agli “sfigati”, che non lo vinceranno, una speranza di avere un miracoloso colpo di fortuna. Soprattutto, offre un paravento di oggettività. Il vincitore potrà fino alla pensione godere i privilegi di un posto fisso senza alcun controllo né dall’alto né, soprattutto, dall’utenza che rimarrà inerme davanti alle inefficienze. A chi infatti posso rivolgermi se il magistrato dopo 5 o 6 anni non ha istruito la mia pratica? Con chi protestare se il professore insegna male o attua assenze incontrollate?

Psicologicamente perdere la tranquillità del “ruolo” potrà apparire a molti difficile. In realtà, più il lavoro è importante socialmente e ben remunerato, più sarebbe utile e stimolante attuare controlli e una certa duttilità, con la prospettiva di avanzare solo per meriti.

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