Gli effetti della guerra in Ucraina iniziano a farsi sentire sulle imprese italiane. Molte, infatti, cominciano a ricorrere alla cassa integrazione. A marzo le ore di cig ordinaria autorizzate dall’Inps sono state il 20% in più rispetto a febbraio. A pesare, insieme ai rincari energetici che si trascinano ormai da ottobre dell’anno scorso, sono le difficoltà di approvvigionamento di materie prime e semilavorati. Un problema, quest’ultimo, che non riguarda però tutte le aziende allo stesso modo. Le più colpite sono infatti quelle imprese metalmeccaniche che importano materiali dalla Russia e, soprattutto, dall’Ucraina. È il caso di Automotive Lighting di Tolmezzo in Friuli, che produce fanali per auto. L’azienda, 930 dipendenti, ha aperto la cassa integrazione per oltre 800 lavoratori a causa della carenza di cablaggi dal fornitore ucraino Leone. Questo mentre la fonderia Zml di Pordenone a marzo aveva messo in cig 350 dipendenti per mancanza di ghisa.

Va detto che si tratta di un fenomeno ancora limitato. Il più delle volte, infatti, il blocco degli impianti è stato evitato ricorrendo a fornitori alternativi. La penuria di materie prime, però, si sta scaricando sui prezzi. Il cromo, ad esempio, è raddoppiato dall’inizio della guerra. La Russia e l’Ucraina, inoltre, rappresentano il 53,1% dell’export mondiale di ghisa e il 40,3% di semilavorati siderurgici. Se la loro produzione si dovesse fermare completamente verrebbe a mancare la metà dei volumi scambiati sui mercati internazionali, con la conseguenza di un’ulteriore ascesa dei prezzi. Secondo un recente report della Fim-Cisl sul comparto, i lavoratori che sarebbero a rischio in seguito al conflitto sono oltre 26mila. “Al momento la situazione è stata gestita”, sottolinea il segretario generale della Fim-Cisl, Roberto Benaglia, “ma se dovesse continuare andrà sicuramente a incidere sull’occupazione”. Anche perché la guerra inizia a mordere sul tessuto industriale. “Le criticità in queste settimane si sono acuite: per molte imprese il costo dell’energia è superiore a quello del lavoro”, prosegue Benaglia, “ci sono aziende che hanno i portafogli ordini pieni ma che più producono più perdono”.

C’è poi il capitolo sanzioni. Le misure varate da Usa e Ue rendono quasi impossibili i pagamenti tra le imprese e bloccano, o rendono comunque molto complicato, il commercio anche di prodotti che non ricadono tra quelli vietati. Alcune imprese di proprietà russa, inoltre, potrebbero faticare a ottenere credito dalle banche. Come il laminatoio Nlmk di Verona o lo stabilimento in Sicilia del gigante petrolifero Lukoil, che impiega 1000 dipendenti a cui vanno aggiunti i 2500 dell’indotto. A questo vanno aggiunte le difficoltà delle aziende che producono macchinari per la lavorazione del legno, del ferro, della pietra o che realizzano impianti industriali. Prima del conflitto, erano in molte ad avere commesse in Russia e nei Paesi dell’Europa orientale. Tutti progetti che, al momento, sono stati congelati o disdetti. Si tratta di un problema in teoria limitato: l’export italiano in Russia vale solo l’1,6% del Pil. Tuttavia, per numerose imprese metalmeccaniche il Paese è un mercato di sbocco importante.

Tra queste c’è Scm Group che produce macchine utensili e doveva inaugurare un nuovo stabilimento a Mosca. Tra Russia e Ucraina, l’azienda riminese aveva ordini per 35 milioni di euro quest’anno, 18 dei quali in consegna ad aprile. Oppure Aermec, 800 dipendenti in provincia di Verona, che produce sistemi di climatizzazione e realizza il 30% del fatturato in Russia. Inoltre, i legami commerciali tra i Paesi europei rischiano di scatenare un effetto domino. “L’industria tedesca è più colpita di noi dalla guerra perché aveva delocalizzato in Ucraina molte attività”, spiega Benaglia. “Visto che esportiamo molto in Germania”, prosegue il sindacalista, “quando si ferma l’industria dell’auto tedesca anche le imprese italiane di componentistica rallentano”. La filiera, del resto, era già in affanno da prima della guerra a causa delle carenze di semiconduttori, materiali usati per realizzare dispositivi elettronici. “Ci sono stabilimenti che spesso si fermano perché mancano questi componenti”, sottolinea Benaglia, “c’è una serie di difficoltà che si stanno accumulando e bisogna evitare un effetto domino”.

Ma ad essere particolarmente sotto pressione è la siderurgia, che dipende dall’estero per quasi la totalità delle materie prime. Dall’Ucraina, infatti, proviene circa il 51% della ghisa e il 75% delle bramme (utilizzate per la produzione di lamiere), mentre dalla Russia acquistiamo il 67% del carbone e l’87% del preridotto (pellets di ferro usate al posto del rottame), tutti materiali indispensabili per la produzione di acciaio. Insieme i due Paesi contano per più della metà delle importazioni italiane di semilavorati siderurgici: si tratta di circa 5,5 milioni di tonnellate all’anno. “Le imprese da subito hanno utilizzato in maniera massiccia tutte le flessibilità nei nastri orari e, in particolare, hanno concentrato le produzioni nel fine settimana per ridurre i costi energetici”, spiega Gianni Venturi, segretario generale della Fiom con delega alla siderurgia. “Adesso, però, si comincia a sentire un impatto pesante per quanto riguarda gli approvvigionamenti di semilavorati e materie prime”. Soltanto pochi giorni fa, le due controllate italiane del colosso ucraino Metinvest, la Valsider di Verona e la Trametal di Genova, hanno sospeso la produzione perché non arrivano più bramme dalla Azovstal di Mariupol, la seconda acciaieria d’Europa dopo Taranto, diventata l’ultima ridotta dell’esercito di Kiev nella città.

“Già prima del conflitto c’era stato un rallentamento della produzione in Ucraina di circa il 40%”, aggiunge Venturi. “La guerra, poi, ha interrotto l’intera catena di approvvigionamento. La situazione è particolarmente pesante: nell’area del Donbass si trovano i maggiori impianti a ciclo integrale ed è lì che è concentrata la produzione di ghisa”. La siderurgia italiana, però, si è mossa per tempo, diversificando gli approvvigionamenti. Fin dalle prime avvisaglie del conflitto, infatti, gli imprenditori hanno cercato alternative ai produttori ucraini. “Ci si è rivolti in particolare al Brasile e all’Indonesia” prosegue il sindacalista, “il punto di debolezza di queste soluzioni sono gli altissimi costi di transhipment (trasbordo, ndr)”. I problemi logistici sono molto rilevanti. I porti di Monfalcone e di San Giorgio in Friuli – dove si riforniscono realtà importanti come Marcegaglia, Pittini, Danieli – non sono in grado di accogliere bastimenti troppo pesanti. “Qualche giorno fa è arrivata una nave carica di bramme e semilavorati dal Brasile”, prosegue Venturi, “è riuscita ad attraccare soltanto perché era semi scarica: quei porti, infatti, hanno un problema di profondità di fondali e non possono ricevere un cargo da 40mila tonnellate”.

Il tutto rischia di scaricarsi, cosa che in parte è già avvenuta, sui prezzi. Mentre nel 2021 il costo di produzione di una tonnellata di acciaio col forno elettrico si aggirava intorno ai 600 euro, il 15 aprile si è arrivati a 960 euro. Anche se sono poche le imprese che hanno fermato gli impianti, per lo più solo per qualche giorno e soprattutto a causa dei rincari energetici, il quadro è piuttosto preoccupante. “Si è prodotta una condizione di assoluta incertezza per i lavoratori perché si è lavorato a singhiozzo si è iniziata a usare la cassa integrazione”, sottolinea il segretario della Fiom. “La cig spesso è stata richiesta in modo preventivo: le ore autorizzate non sono state utilizzate perché poi i rifornimenti sono arrivati in tempo”, aggiunge il sindacalista. Nonostante il ricorso agli ammortizzatori sociali sia ancora limitato, “la durata del conflitto e le difficoltà che stanno emergendo negli approvvigionamenti alternativi fa intravedere all’orizzonte qualche rischio di allargamento nel loro utilizzo”. Inoltre, non avendo produzione a ciclo integrale – l’80% dell’acciaio italiano, 24 milioni di tonnellate, proviene dai forni elettrici – il nostro Paese è più esposto di altri agli aumenti dei costi dell’energia e più dipendente dall’estero per le materie prime. La ghisa, ad esempio, va importata. L’Ilva, l’ultimo impianto a ciclo integrale rimasto, a fronte di una capacità installata di 10 milioni di tonnellate all’anno ne produce soltanto 4. Volumi che sono insufficienti a soddisfare il fabbisogno della manifattura italiana. Per non parlare dell’alluminio primario. Da quando è stata chiusa l’ex Alcoa in Sardegna, infatti, non è più prodotto in Italia. Problemi che, per il segretario Fiom Venturi, vanno affrontati attraverso “un piano nazionale sulla siderurgia intrecciato con un piano energetico nazionale”. Cosa che finora non è avvenuta.

“Il giudizio su quanto fatto dal governo è assolutamente insufficiente per i contenuti ma lo è ancora di più se si guarda alla mancanza di una visione strategica” prosegue l’esponente delle Fiom. “Sono tutti provvedimenti di carattere emergenziale” che “non rispondono alla domanda di fondo che il conflitto ha scatenato: come si colloca l’industria italiana e quali sono le sue prospettive a partire dai settori strategici della siderurgia e della produzione energetica”. Più positiva, invece, la valutazione sul decreto Aiuti. “Finalmente vediamo cose concrete e anche veloci. Sono misure indispensabili in questo momento per dare una boccata d’ossigeno alle famiglie e ai lavoratori”, sottolinea Benaglia. Che però chiede a Palazzo Chigi di aprire una fase due, con interventi di “contenimento dei costi energetici e politiche di sostegno alle esigenze delle imprese più colpite”. Insomma, le aziende “devono essere messe nelle condizioni di lavorare e programmare in modo più sereno l’attività produttiva”. L’obiettivo è “proteggere prima di tutto i posti di lavoro”.

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