di Giovanni Casciaro

In questi giorni diverse fonti d’informazione hanno riportato notizie su tre imprenditori della Toscana, che facevano lavorare nei campi per 15 ore consecutive centinaia di lavoratori italiani e stranieri, per una paga oraria di due euro e mezzo, totalmente in nero, quindi anche con un conseguente grave danno erariale. Mentre i braccanti italiani dopo il lavoro tornavano nelle proprie case, quelli stranieri in tuguri senza acqua ed energia elettrica, il cui affitto veniva decurtato dalle buste paga.

Questi, come altri fatti analoghi riportati dal Fatto Quotidiano, confermano quanto emerge nella recente relazione della “Commissione parlamentare di inchiesta sulle condizioni di lavoro in Italia, sullo sfruttamento e sulla sicurezza nei luoghi di lavoro pubblici e privati”. Ne esce un quadro desolante. Si riporta che: “Il tema dello sfruttamento del lavoro si concentra nel settore agricolo, dove maggiormente si registra lavoro irregolare con ricorso a manodopera sottopagata, priva di condizioni di lavoro e umane dignitose, di provenienza extracomunitaria”. In particolare questa condizione “grava sulle lavoratrici per lavori faticosi, per condizioni, orari, retribuzioni”.

Dalla relazione si riscontra che sono condizioni e modalità di intermediazione illecita di manodopera presenti in tutt’Italia e “in ogni campo lavorativo: edilizia, sanità, assistenza, case di cura, logistica, call-center, ristorazione, servizi a domicilio, pesca, cantieristica navale”. I punti di reclutamento nelle città sono così diffusi da indurre la Commissione ad adottare le definizioni di “caporalato urbano”, “caporalato digitale”, “cooperative spurie” e “bracciantato metropolitano”.

Emerge quindi che “la ricerca del profitto avviene con modalità, termini e proporzioni prevalenti sulla tutela della dignità, della salute e della sicurezza”, “con notevoli danni per la vita, salute, libertà, dignità della persona”. Mentre il fatto che siano rarissime le denunce presentate dai lavoratori e dalle lavoratrici, oggetto di sfruttamento, indica la rassegnazione, la sfiducia nelle istituzioni, la mancanza della stessa “libertà delle vittime di reagire all’ingiustizia e alla vessazione e di chiedere protezione sociale”. Purtroppo gli anelli della catena che lega vittime-caporalato-omertà sono difficili da spezzare.

È innegabile che a queste persone, data la condizione di precarietà e ricattabilità, sia negato nei fatti di esercitare i propri diritti e dare il proprio contributo alla vita democratica della comunità. Vi è quindi anche una perdita della democrazia sostanziale nel Paese. È sconcertante constatare che, a uno stato di diffuso sfruttamento e di illegalità, non segua una forte indignazione di noi cittadini. Anzi i soggetti deboli, che subiscono questa condizione, spesso vengono umiliati per mera propaganda politica.

Mentre la mancanza di sicurezza sul lavoro comporta, oltre a tanti feriti e disabili, la perdita di tante vite umane: nel 2021 si contano 1221 vittime, nel 2022 la morte di tre persone al giorno. Morire per lavorare è veramente inaccettabile! Questa situazione, oltre all’inestimabile danno umano, determina un notevole danno economico alla singola persona, alla sua famiglia e all’intera società. A causa degli infortuni sul lavoro si stima una perdita per la collettività di circa il 6% del Pil.

La Commissione non si limita alla denuncia, propone e sollecita una serie di cambiamenti normativi per far fronte a questa insostenibile situazione. È urgente che essi siano realizzati. Affermare i diritti in ambito lavorativo significa sì porre in atto importanti valori di civiltà, ma anche difendere interessi economici e politici, riguardanti l’individuo e la collettività; significa attuare quanto riportato nell’articolo 3 della Costituzione: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana”.

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