Lo stupro di guerra è “un atto di una violenza estrema“. Viene fatto per “distruggere, umiliare, punire“, è realizzato in modo sistematico e su ordini ricevuti dall’alto. Quando avviene, cruciale è il tempo che passa tra il crimine commesso e la denuncia della vittima. Solo che quando i conflitti sono in corso, tutto diventa più complesso. Per questo Céline Bardet, avvocata e giurista francese impegnata da vent’anni in zone di guerra, ha sviluppato insieme alla ong We Are Not Weapons of Waruna piattaforma capace di raccogliere online le segnalazioni delle vittime: “Si chiama BackUp. Chi entra si può identificare, risponde a un questionario giuridico, può fotografare le ferite, registrare e caricare una testimonianza audio”. Se poi si trova in zone occupate, “c’è una guida su come conservare i vestiti” in modo che le prove non deperiscano. Una volta entrati nel sistema, che ilfattoquotidiano.it ha visto in anteprima, si possono dare informazioni su luogo, aggressori e danni subiti. L’obiettivo è creare un legame con chi chiede aiuto, fornire assistenza e preparare dossier per portare avanti le denunce. “Stiamo accelerando la messa online per rispondere a tutte le segnalazioni che riceviamo ogni giorno dall’Ucraina”. Lo strumento è già stato testato in varie zone (Burundi, Rwanda, Uganda, Libia), presto potrà essere operativo a livello internazionale e sarà accessibile anche da persone terze (giornalisti, associazioni) che hanno informazioni da condividere.

Ma come è possibile che, nel 2022, la Corte penale internazionale non abbia già un sistema simile? “Domanda da mille dollari. Non lo so”, ammette Bardet. “Ma vorrei che il nostro fosse utilizzato il più possibile”. Sono tante le testimonianze che arrivano dalla guerra in corso nel cuore dell’Europa: la commissaria per i diritti umani ucraina, nei giorni scorsi, ha parlato di 400 denunce per stupri già raccolte. Perché la giustizia vada avanti non basta. “Le vittime vanno rintracciate in fretta. Il mio lavoro e la mia determinazione è per provare le violenze e aiutare le donne a proteggere le prove”. La giurista ed esperta di crimini di guerra ha iniziato la sua carriera al Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia e ha poi lavorato con l’Onu e l’Unione europea. Nel 2011 ha scritto il libro “Zone sensibles”, sulla sua esperienza in Bosnia e nel 2014 ha fondato l’ong WWOW. Intervistata da ilfattoquotidiano.it, racconta: “Le vittime che ho incontrato nel mondo chiedono prima di tutto di essere credute e che sia riconosciuto quello che è successo”.

In passato non si è mai parlato molto di violenze sessuali nei conflitti. Questo ha fatto sì che restassero impunite?
L’esempio lampante è la Seconda Guerra Mondiale: c’è stato il tribunale di Norimberga, ma non sono state per niente affrontate. La svolta è arrivata negli anni ‘90 con i conflitti in Bosnia Erzegovina e Rwanda: qui le violenze sessuali sono state utilizzate in modo sistematico e di massa. Le vittime sono state almeno 200mila in Rwanda e 50mila in Bosnia. Da quel momento si è cominciato a parlarne e ci sono state le prime sentenze della giustizia penale internazionale: si è riconosciuto lo stupro come un crimine contro l’umanità e in Rwanda come elemento di genocidio. Ma a livello di pubblico e media ancora non se ne parlava tanto. Le cose sono iniziate a cambiare negli ultimi cinque anni, ma c’è ancora bisogno di una presa di coscienza collettiva di cosa sono le violenze sessuali nei conflitti.

Che cosa sono?
Sappiamo che una violenza sessuale è la presa di potere di qualcuno su qualcun altro. Nei conflitti va molto al di là. Si tratta di stupri commessi con estrema violenza e con conseguenze mediche molto gravi: vediamo vagine di donne completamente distrutte e ferite anali per gli uomini per cui serve poi l’intervento della chirurgia. E poi sono violenze sistematizzate: non sono mai casi isolati, dopo una segnalazione, ne seguono altre nello stesso giorno e nello stesso luogo. E poi c’è una strategia: spesso è attuato dalla unità gerarchica militare, oppure da organizzazioni come Isis o Boko Haram. C’è un obiettivo di distruzione, umiliazione e punizione estrema contro un gruppo. Spesso la violenza è accompagnata da torture.

Umiliare per isolare?
Si vuole rimuovere la persona dalla vita sociale. Lo stupro di guerra ha un impatto non solo sulla vittima, ma su tutto intorno a lei. Per questo avvengono spesso in pubblico. La madre è stuprata davanti ai bambini, la donna davanti al marito. In Libia gli uomini vengono stuprati nei centri di detenzione davanti a tutti: dopo c’è una tale stigmatizzazione che se anche sopravvivi, perdi il tuo posto nella società. In Paesi diversi, che sia in Congo o Yemen, le donne dicono tutte la stessa cosa: “Avrei preferito morire”.

Perché scelgono di stuprare e non di uccidere le donne?
Perché lo stupro è un’arma più potente. Ci sono dei casi in cui dopo uccidono comunque, come in Rwanda dove l’intento era genocidario, ma nella maggior parte dei casi no. Io dico che è un’arma a deflagrazione multipla: ha un effetto nel momento in cui si produce, poi durerà e impatterà su molte persone. Senza dimenticare i bambini nati dalle violenze che sono ancora un tabù. In Bosnia c’erano dei campi di stupro, luoghi dove i serbi mettevano le donne musulmane per stuprarle e metterle incinta: l’obiettivo era l’epurazione etnica. In Ucraina abbiamo avuto segnalazioni di donne che dicono che i militari russi le hanno stuprate dicendo “così non potrai più riprodurti”. La mia priorità ora è verificarle.

Quali crimini si stanno verificando in Ucraina?
Sulla base degli elementi che abbiamo, è chiaro che c’è un crimine d’aggressione e che sono stati commessi dei crimini di guerra e persino contro l’umanità. Dall’inizio del conflitto riceviamo anche segnalazioni di stupri e dalle descrizioni pensiamo che ci sia una forma di sistematizzazione. Quello che non sappiamo ancora è se sono stati pensati a monte e ordinati a livello di gerarchia. E se c’è una specie di politica dello stupro. Su questo non abbiamo ancora elementi e la difficoltà per l’Ucraina è che il conflitto è in corso. Per il momento non possiamo corroborare le testimonianze. Non le metto assolutamente in discussione, ma c’è bisogno di indagare.

Servono altre prove?
Quando parli di violenze sessuali, una delle difficoltà è provare che ci sono state. Nei conflitti le vittime non possono andare immediatamente a denunciare alla polizia e non si può prelevare il Dna. Alla fine quello che resta è la testimonianza: è un elemento di prova, ma estremamente fragile. Abbiamo bisogno di elementi materiali e di contesto. E la problematica dell’Ucraina, come poi di tutti i conflitti, è che bisogna individuare le vittime molto velocemente, essere in contatto con loro anche se non fisico, per aiutare a preservare le prove per la giustizia. E oggi non esiste un modo per farlo.

Lei e la sua ong avete deciso di fare da sole.
Abbiamo creato una piattaforma, non si scarica ma funziona come un’applicazione. Si chiama BackUp e ha un questionario sviluppato su una base giudiziaria: la vittima quando entra può identificarsi, rispondere a una serie di domande, fotografare le ferite, registrare un audio. C’è poi una parte specifica per l’Ucraina: le donne sono sole, in alcuni casi sono nelle zone occupate, e quindi diamo delle indicazioni su come preservare le prove. Ad esempio, diamo indicazioni su come conservare i vestiti che avevano al momento della violenza perché siano il meno alterati possibile. Anche giornalisti e associazioni potranno fare segnalazioni.

Come viene tutelata la sicurezza di chi denuncia?
Tutti gli elementi che inviano spariscono dai supporti. Si può fare su tablet, telefono e computer. Se subito dopo arriva un militare e prende il telefono, non trova niente. Noi dall’altra parte riceviamo tutto su un back office che è uno strumento di analisi criminale costruito su misura e su un cloud secretato. Questo ci permetterà di avere dei dati, comprendere il modus operandi, preparare dei dossier giudiziari. Dovevamo lanciarlo a livello mondiale nei prossimi mesi, ma da quando è iniziata la guerra in Ucraina siamo state contattate da molte donne ucraine e dalla procuratrice generale di Kiev. Abbiamo deciso che dovevamo accelerare.

Quante segnalazioni avete ricevuto finora?
Circa un centinaio dall’inizio del conflitto. Ci sono delle vittime che ci contattano e che sono nelle zone occupate. Riescono ancora a comunicare, perché c’è la rete internet. Ma sono completamente isolate. Al momento ci scrivono donne e associazioni. Parlano di soldati russi, molte di ceceni: è interessante perché sappiamo che ci sono milizie cecene in Ucraina e sappiamo anche che i ceceni hanno usato lo stupro nei conflitti. L’hanno fatto in Cecenia, nel Donbass e durante la rivoluzione del Maidan. E poi ci sono anche segnalazioni di crimini commessi da ucraini. Bisogna verificarli. Il problema è che siamo in pieno conflitto.

E’ presto?
Sì perché c’è anche una guerra di comunicazione in corso. Noi acceleriamo per avere delle prove. Io sono convinta che ci siano degli stupri e che la maggior parte delle segnalazioni che riceviamo siano vere. Sono convinta che c’è una forma di sistematizzazione degli stupri e che sono usati per umiliare. Le storie sono tutte uguali: li fanno davanti alle famiglie, davanti ai bambini. Lo abbiamo già visto da altre parti. Sappiamo di cosa si tratta. Ma il mio lavoro e la mia determinazione è per poterlo provare e aiutare le donne a proteggere le prove. Ascoltare le testimonianze possiamo farlo tutti, ma provarle è un’altra cosa.

Dopo che avrete ricevuto le segnalazioni cosa succede?
La prima cosa sarà diffondere la piattaforma e vedere cosa succede. Coordineremo un’assistenza locale: abbiamo delle reti in Austria che possono inviare dell’assistenza medica in 72 ore. E poi sulla base di tutte le segnalazioni che riceviamo, analizzeremo tutto e daremo accesso alle informazioni alla procuratrice nazionale dell’Ucraina e alla Corte penale internazionale. Poi prepareremo delle denunce.

La piattaforma è già stata usata?
Tra il 2019 e il 2020 l’abbiamo testata in Libia, Burundi, Rwanda, Uganda e Est della Repubblica del Congo. Abbiamo fatto una denuncia in Francia, che è in via di istruzione. Ha funzionato molto bene e in Paesi con grosse difficoltà. E’ terribile da dire, ma l’Ucraina è un’opportunità: è un Paese europeo, estremamente moderno e ben connesso.

Perché nessun altra grande istituzione non ha lanciato niente di simile?
E’ una domanda da mille dollari. Non lo so. Fino a due mesi fa la Corte penale internazionale dava una mail, l’Ucraina ha creato una piattaforma generale per le segnalazioni. Ora la Corte penale internazionale chiede fondi per creare degli strumenti tecnologici simili a quello che stiamo lanciando noi. Tanto meglio, però nel 2022 ancora devono iniziare a farlo. Una piattaforma come la nostra permette una relazione diretta con le vittime e di portare facilmente delle prove. Noi ci abbiamo messo quattro anni a svilupparla, perché non avevamo abbastanza fondi e lo abbiamo fatto insieme alle vittime. Poi possiamo cederlo. Spero che sia utilizzato il più possibile.

Secondo lei la giustizia non fa abbastanza contro gli stupri di guerra?
Di solito restano sempre in secondo piano. In Ucraina è interessante perché se ne sta parlando molto. Bisogna continuare. E poi deve cambiare la presa di coscienza generale. La violenza sessuale è sempre qualcosa che facciamo fatica ad ascoltare. L’impostazione mentale porta a mettere in discussione le testimonianze. Visto che per l’80% dei casi riguarda delle donne, c’è la tendenza a fregarsene un po’. E ancora di più durante un conflitto. Io sento persone dire: “Durante la guerra capita sempre”. Nella testa delle persone c’è ancora l’immagine di un soldato perso che passava di là e ha visto una ragazza da sola e l’ha violentata. Lo stupro di guerra è molto altro.

Sono vent’anni che ascolta le storie di donne violentate nei conflitti. Lei crede ancora nella giustizia?
Le vittime che ho incontrato nel mondo chiedono prima di tutto di essere credute e che sia riconosciuto quello che è successo. Non sono ingenue: sanno che gli autori dei crimini una volta su due non sono perseguiti. La giustizia richiede molto tempo. È rigida, senza innovazioni, per questo va cambiato il sistema. Non sono ingenua neanche io. Ma far sentire la voce di chi ha subito le violenze è la cosa più importante. Soprattutto per chi le ha vissute.

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