Da anni le donne polacche, a causa delle rigide restrizioni antiabortiste, per interrompere la gravidanza sono costrette ad andare all’estero, a ricorrere all’aiuto di levatrici improvvisate o, nel migliore dei casi, al supporto di ong. Sulle pagine di Repubblica di oggi il quotidiano denuncia la durezza delle strutture polacche, che non concedono eccezioni: nemmeno per quei casi di donne ucraine stuprate dai russi, adesso rifugiate in Polonia, che chiedono di abortire.

In Ucraina, prima dell’invasione, alle donne era consentito di abortire fino alla dodicesima settimana. Hilary Margolis di Human Rights Watch, si legge sul quotidiano, ha raccontato ai media polacchi che “le ucraine non sono abituate alle nostre restrizioni: c’è molta paura e ansia tra di loro”. Stando ai dati delle Nazioni Unite, a 51 giorni dall’invasione russa si contano più di 4,7 milioni di ucraini fuggiti dal paese: per il 90% dei casi si tratta di donne e bambini. Dei 4,7 milioni di fuggiti, quasi 6 rifugiati su 10 sono entrati in Polonia: si tratta di 2.694.090 finora.

Nel frattempo è passato più di un anno dal 27 gennaio 2021, giorno in cui è entrata in vigore la sentenza pronunciata dal Tribunale costituzionale della Polonia che ha reso impossibile l’accesso all’aborto in quasi tutte le circostanze: con quella sentenza è stata eliminata anche la “malformazione grave e irreversibile del feto o malattia incurabile che minacci la vita del feto” dalle cause legittime per abortire. Cause che, prima della sentenza, riguardavano il 90% delle circa 1000 interruzioni di gravidanza praticate ogni anno. “Dal 27 gennaio 2021” ha riferito Amnesty International Italia “oltre 1000 donne si sono rivolte alla Corte europea dei diritti umani, sostenendo che la legislazione polacca causi gravi danni alle donne e violi i loro diritti alla riservatezza e alla libertà dalla tortura”.

A fine gennaio la legge anti-aborto polacca aveva provocato la morte di Agnieszka T, 37 anni: la famiglia ne aveva denunciato il decesso dopo che i medici si sono rifiutati di operarla in seguito alla morte di uno dei feti gemelli di cui era incinta durante il primo trimestre della gravidanza. La procedura è stata rimandata fino alla morte anche del secondo feto una settimana dopo, mentre la donna è morta a un mese dal ricovero, il 21 dicembre scorso.

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