In Polonia la legge anti-aborto ha provocato un’altra vittima: Agnieszka T, 37 anni. La famiglia ne ha denunciato il decesso dopo che i medici si sono rifiutati di operarla in seguito alla morte di uno dei feti gemelli di cui era incinta durante il primo trimestre della gravidanza. La procedura è stata rimandata fino alla morte anche del secondo feto una settimana dopo, mentre la donna è morta a un mese dal ricovero, il 21 dicembre scorso. La famiglia sostiene che la causa sia setticemia: “Questa è la prova del fatto che l’attuale governo ha le mani insanguinate”, ha scritto su Facebook. L’ospedale si difende sostenendo “di aver fatto di tutto per salvarla”. La Procura ha aperto un’inchiesta.

La notizia del decesso ha infiammato le piazze e riacceso le proteste. In settimana si è svolta una fiaccolata in memoria della vittima. Ulteriori proteste sono in programma a Czestochowa, la città nel sud della Polonia da cui proveniva la donna, già madre di tre figli. “Continuiamo a protestare affinché nessun altro muoia”, ha detto ai media polacchi Marta Lempart, organizzatrice dei cortei, denunciando che “La legge anti-aborto uccide. Un’altra persona è morta perché le necessarie procedure mediche non sono state eseguite in tempo”. Il movimento All-Poland Women’s Strike ha invitato tutte le persone a picchettare gli uffici del partito di maggioranza Diritto e giustizia (Pis) e a organizzare blocchi stradali nei prossimi giorni. A novembre c’era stato un altro caso, vittima una trentenne.

Nel frattempo è trascorso un anno dal 27 gennaio 2021, giorno in cui è entrata in vigore la sentenza pronunciata il 22 ottobre 2020 dal Tribunale costituzionale della Polonia che ha reso impossibile l’accesso all’aborto in quasi tutte le circostanze, con un impatto devastante sulle vite delle donne (come si evince, appunto, dai fatti di cronaca). Amnesty International Italia ricorda che con quella sentenza il Tribunale costituzionale ha eliminato la “malformazione grave e irreversibile del feto o malattia incurabile che minacci la vita del feto” dalle cause legittime per abortire: cause che, prima della sentenza, riguardavano il 90 per cento delle circa 1000 interruzioni di gravidanza praticate ogni anno. Dal 27 gennaio 2021 – riferisce Amnesty – oltre 1000 donne si sono rivolte alla Corte europea dei diritti umani – Cedu -, sostenendo che la legislazione polacca causi gravi danni alle donne e violi i loro diritti alla riservatezza e alla libertà dalla tortura. Amnesty e altre otto organizzazioni per i diritti umani (Centro per i diritti riproduttivi, Human Rights Watch, Commissione internazionale dei giuristi, Federazione internazionale dei diritti umani, Rete europea della Federazione internazionale per la pianificazione familiare, Women Enabled International, Women’s Link Worldwide e Organizzazione contro la tortura) si sono iscritte come terze parti alle cause avviate di fronte alla Cedu con l’obiettivo di fornire prove e analisi basate sul diritto internazionale dei diritti umani, sulla legislazione europea e sulle linee-guida dell’Organizzazione mondiale della sanità. Insieme a Malta, la Polonia è lo stato dell’Unione europea con la legislazione più restrittiva in materia di aborto. In Polonia l’aborto è permesso solo in caso di rischio per la vita o la salute di una donna incinta o se la gravidanza sia stata causata da uno stupro. In pratica, tuttavia, abortire è quasi impossibile pure per coloro che vi avrebbero diritto. Ogni anno migliaia di donne lasciano la Polonia per abortire in altri Stati europei mentre altre comprano all’estero pillole abortive o ricorrono all’aborto in modo non legale.

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