“Quando sono arrivato a Borodjanka con cibo e medicine la gente piangeva. Negli ultimi giorni per sopravvivere mi hanno raccontato di aver dovuto mangiare cani e gatti”. A parlare direttamente dalla città a cinquanta chilometri da Kiev, occupata per trentotto giorni dai militari russi, è don Slavik, prete cristiano cattolico che vive nei dintorni di Leopoli. Da quando è iniziata la guerra il sacerdote non ha mai pensato un solo momento di andarsene, ma ha trascorso ogni minuto ad organizzare la resistenza.

Don Slavik parla italiano oltre che polacco e grazie alla sua rete di conoscenze in Europa e nella parte est dell’Ucraina è riuscito a mettere in piedi una macchina della solidarietà inarrestabile. Solo nella giornata di ieri don Slavik è riuscito a portare a Borodjanka e Bucha venti tonnellate di cibo e medicine ma anche generatori elettrici. A testimoniare quanto racconta ci sono anche le fotografie che il prete ha inviato a ilfattoquotidiano.it.

A Bucha così come Borodjanka immagini di palazzi sventrati dalle bombe, sgretolati, completamente distrutti. Restano gli “scheletri”. Da tre giorni, dopo il ritiro dei russi, i vigili del fuoco e molti volontari stanno lavorando in modo incessante per rimuovere i detriti. Negli scatti di don Slavik i segni dell’attacco: un’auto con la carrozzeria sventrata, strade impraticabili perché anche l’asfalto è stato fatto saltare interrompendo ogni possibile via di fuga o di comunicazione.

“Non so quanti siano ufficialmente i morti. A Bucha – spiega il prete – ho parlato con due anziane donne sedute qui su una panchina, davanti alla loro casa carbonizzata, che mi hanno detto di aver paura che i russi possano tornare da un momento all’altro. Per un mese hanno distrutto tutto, rastrellato ogni barattolo di cibo nei negozi e violentato anche delle donne”. Nel giorno in cui la presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, è andata a Bucha insieme all’Alto Rappresentante per la Politica Estera Josep Borrell, don Slavik era lì, tra la gente: “In queste settimane le persone sono rimaste nascoste come topi nei sotterranei, nelle cantine. Ora sono usciti ma non c’è nulla. Non c’è acqua, non c’è gas, non c’è corrente elettrica. I russi se ne sono andati a Nord, verso la Bielorussia e i militari ucraini stanno presidiando ogni angolo della città”. Bucha è sempre stata una realtà satellite della capitale: la gente lavorava a Kiev e aveva casa a Bucha oppure andava da quelle parti per stare un po’ più in tranquillità. Dei 36mila abitanti, una parte ha resistito sotto i bombardamenti; altri sono fuggiti. Più di trecento persone sono state trovate in fosse comuni. “Non ho cifre ufficiali dei morti – spiega don Slavik – e in giro per le strade non ho visto un solo cadavere perché li hanno già rimossi. Non tutte le case sono andate distrutte ma molte abitazioni e anche scuole riportano i segni dei combattimenti e non potranno tornare ad essere usate subito”.

Poco più in là, a trentatré chilometri da Bucha, c’è Borodjanka. Quando il prete ci chiama da lì è molto più triste: “I 15mila cittadini che abitano qui non hanno più niente. E’ stato distrutto molto di più. Vedendo queste persone ormai impoverite mi è venuta voglia di tornare al più presto per riportare ancora cibo, medicinali. Abbiamo consegnato tanto materiale ma il bisogno di alimentari non termina mai. Pian piano le persone stanno rientrando e servono sempre più aiuti. Dei dieci milioni di rifugiati ucraini, la metà ha preso la strada dell’Europa ma l’altra metà è rimasta nel nostro Paese, nascondendosi in luoghi più sicuri. Ora vogliono riappropriarsi delle loro case anche se hanno terrore, anche se non c’è più nulla. Resta la volontà di ripartire, di ricostruire, di vivere”.

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