Nelle terapie intensive italiane sono ricoverati tre tipi di pazienti con Covid-19. “Del primo fanno parte i no vax, che possono arrivare con gravi polmoniti e, per questa ragione, necessitano di un immediato supporto respiratorio: uno di questi è l’ECMO (Ossigenazione extracorporea a membrana), procedura di circolazione extracorporea per soggetti con insufficienza cardiaca o respiratoria. Nel secondo gruppo ci sono i pazienti fragili vaccinati, che possono soffrire di insufficienza cardiaca, respiratoria o renale, cirrosi epatica, diabete e tumori”. Infine ci sono coloro che finiscono in terapia intensiva per gravi patologie o a causa di un incidente e poi risultano positivi. A spiegarlo all’Ansa è Antonello Giarratano, presidente della della Società Scientifica Italiana degli Anestesisti Rianimatori e Terapisti del Dolore (Siaarti).

Senza la terza dose, “avremmo avuto un 80% di mortalità in questo (secondo, ndr) gruppo di pazienti in cui oggi l’infezione da Sars-Cov-2, pur non manifestandosi polmoniti gravi, produce un aggravamento della disfunzione d’organo precedentemente presente e la terapia intensiva supporta la disfunzione dell’organo”. Infine, c’è appunto la terza categoria: si tratta del paziente con gravi problemi di salute come ictus o incidenti, che “nel momento in cui viene ammesso in terapia intensiva, si rileva che è positivo per il Covid-19, e comunque deve stare in reparti isolati ad hoc per positivi”. Confrontato con quello dell’anno scorso, l’attuale tasso d’occupazione nazionale delle terapie intensive è pari al 5% dei posti disponibili. Un dato rincuorante, se non fosse che in alcune regioni, come Calabria e Sardegna, la stessa percentuale supera il doppio del valore nazionale: un’anomalia attribuibile ai diversi sistemi organizzativi delle sanità regionali.

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