Una sassata incredibile quella del difensore brasiliano: violentissima la botta su punizione dalla trequarti, forse più lontano, con la palla che va a infilarsi inesorabilmente alla sinistra del portiere, vicino al palo. No, non è il gol di Roberto Carlos nel torneo di Francia: mancano più di cinque anni per vedere quel capolavoro su punizione che diventerà ben più noto. È il 92, e a sparare un siluro nella porta della Cremonese, portando in vantaggio la Juventus è Julio Cesar da Silva, difensore centrale brasiliano. Era arrivato due anni prima Julio, un po’ a sorpresa per la verità: il 1990 è un periodo in cui ancora si guardava con diffidenza ai difensori brasiliani. Certo, c’erano anche Oscar o Mozer, roba pregiata: ma c’è da dire che la Juve un brasiliano non lo prendeva dai tempi di Altafini e mai aveva avuto un difensore verdeoro in rosa.

Tant’è che lo stesso avvocato Agnelli, incuriosito da quel ragazzone volle incontrarlo a cena dopo averlo acquistato dal Montpellier, dicendo dopo averlo conosciuto che “sembra più un tedesco che un brasiliano”. Avrà modo di smentirsi parzialmente. Tedesco perché i grilli per la testa se li era dovuti togliere già da bambino Julio: nato a Baurù, da un papà con la passione per la storia romana, per la boxe (l’altro figlio lo aveva chiamato Cassius Clay) e per la bottiglia e da una mamma amatissima per quanto tosta, Dona Leny. Poverissimo si era dato da fare, tutto ciò che poteva: dal lustrascarpe, al falegname al custode. Poi c’è la passione per il calcio, certo, coi geni del difensore evidentemente ereditati da Dona Leny: lui i provini vorrebbe farli pure, mammà non vuole manco sentirne parlare e lo chiude in casa pur di non farcelo andare. E i geni del difensore si mischiano all’ingegno dettato dalla necessità: scappa Julio e va a Campinas per giocarsi le sue chances col Guarani.
Ci riesce, naturalmente: ha un fisico fenomenale e anche piedi da centrocampista e tanta intelligenza tattica. Dona Leny deve prenderne atto: si trasferisce con Julio a Campinas, ma con profonda dignità continua anche a lavorare essendo rimasta vedova intanto.

Arriva in prima squadra, e poi in nazionale: al mondiale del 1986 è statuario. Il Brasile non becca neppure un gol fino ai quarti di finale quando dopo il vantaggio di Careca subisce il pareggio di Platni. Ai calci di rigore è proprio Julio Cesar a mandare sul palo il rigore decisivo che elimina i verdeoro: ma conquista comunque il titolo di miglior difensore del torneo e anche il soprannome di “muraglia nera”. Le sue buone prestazioni attirano l’interesse delle squadre europee: lo prende il Brest e poi il Montpellier. A sorpresa nel 1990 viene scelto dalla Juventus di Maifredi: il costo è irrisorio, meno di un miliardo di vecchie lire, e a dir la verità le prime partite in bianconero sembrano costituire la giusta motivazione per quella somma.

La Supercoppa Italiana persa contro il Napoli per 5 a 0 è la prima avvisaglia, il buco clamoroso che concede il vantaggio a Turrini del Taranto, nel ritorno del turno preliminare di Coppa Italia la seconda. Si inizia a rumoreggiare, a bollare come bidone quel ragazzone con tanta classe ma un po’ lento. Tedesco per l’abnegazione e la serietà, niente saudade, niente Carnevale (“ne so quanto voi, l’ho visto solo in tv” dirà), niente locali, ma col sangue caldo che lo porta a qualche litigio ed espulsione di troppo, tutt’altro che teutonico nell’ancoraggio a radici popolari superstizione compresa (giocando, pare, con un amuleto fatto di ossa di gatto nelle mutande, per proteggersi dagli infortuni), e con l’errore spesso dietro l’angolo (“tedesco, ma che a volte pare giocare sulla spiaggia di Copacabana”, dirà sempre l’avvocato Agnelli).
Eppure, al netto di qualche errore, c’è poco da dire su Julio Cesar che spesso, in particolare dopo l’abiura della rivoluzione zonista di Maifredi e l’avvento al sapore di restaurazione del Trap, e in particolare di Jurgeen Kholer e Stefan Reuter, è gigantesco al centro della difesa.

Nel primo anno del Trap la Juve arriva seconda dietro al Milan invincibile di Capello, facendo 30 gol in meno dei rossoneri, ma subendo un solo gol in più di una difesa che è stata probabilmente la migliore della storia. Saluta la Juve del Trap dopo aver vinto il suo unico trofeo in bianconero: la Coppa Uefa del 1992-’93 e passa al Borussia Dortmund. Col club tedesco vince il campionato e parte ovviamente titolare, nonostante i 34 anni, nella Champions League che il Borussia vincerà nel 1997 proprio contro la Juventus: ma giocherà soltanto nel girone, l’amuleto o più verosimilmente l’età, non gli evitano fastidi fisici che lo estromettono dalla finale vittoriosa. Si rifarà, però, giocando da titolare contro il Cruzeiro nella finale dell’Intercontinentale, diventando campione del mondo. È la chiusura del cerchio: dai tackle per fermare gli avversari a quel dribbling fintando su Dona Leny per diventare alla fine il tedesco di Baurù, che va in Germania per vincere tutto.

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