Una guerra di diritti ne spazza via parecchi, quasi tutti. Però ci sono diritti che trovano spazio nelle narrazioni dei conflitti e altri che restano a margine, magari perché non sembrano costituire una violazione così grave della persona umana, soprattutto se quella persona è una donna, considerata solo una comparsa rispetto allo scontro armato. Donne “del nemico” abusate, stuprate, rapite, una conseguenza storica costante, eppure sempre in secondo piano.

Qualche giorno fa anche il ministro degli Esteri ucraino Dmytro Kuleba ha lanciato l’allarme: pare ci siano già stati casi di soldati di soldati russi che hanno commesso violenze ai danni delle donne nelle città occupate. Dichiarazioni difficili da verificare, soprattutto quando l’occhio della legge è impegnato a guardare tutt’altri crimini. Proprio perché gli abusi si inseriscono in una cornice di guerra, la giustizia non ha mai bussato alla porta di chi ha reso i corpi delle donne campi di battaglia. Sono state più di ventimila le vittime di stupro durante il conflitto in Bosnia ed Erzegovina, centinaia di migliaia nella Repubblica Democratica del Congo tra il 1994 e il 2003, oltre milleduecento casi lo scorso anno in Etiopia, nella regione del Tigray e si potrebbe andare avanti all’infinito, ahimè, citando i crimini dei soldati italiani in Libia o la prostituzione forzata nei bordelli dei lager nazisti.

Oggi in Ucraina le donne pagano anche per un altro diritto violato, quello all’aborto. L’accesso all’ivg è stato compromesso dal conflitto, dando vita a due scenari ugualmente preoccupanti: gravidanze forzate o aborti clandestini. In realtà non sono solo le donne ucraine a dover fare i conti con quest’altra conseguenza della guerra. Di recente, infatti, gli ospedali delle più importanti città dell’Ucraina sono diventati indispensabili anche per il diritto ad abortire delle donne polacche, data la stretta della Polonia che vieta l’aborto anche in caso di complicazioni, decisione che ha condotto in più casi alla morte della gestante.

In questo clima di emergenza, come spiegato dalla pagina IVG sto benissimo con un enorme lavoro di ricerca, informazione e aiuto, è indispensabile incanalare quanti più casi possibile verso l’aborto farmacologico, garantendo l’accesso a mifepristone e misoprostolo presso i presidi sanitari e parasanitari sul territorio ucraino. Ovviamente, questa soluzione non potrà “coprire” il diritto delle donne che a causa del conflitto hanno purtroppo superato la data limite entro cui è possibile accedere alle diverse modalità di interruzione della gravidanza. Una violazione invisibile per chi guarda la guerra filtrata dagli schermi, ma che di fatto cancella uno spazio inviolabile di libertà delle donne, il più importante: il nostro corpo.

Intanto, decine di donne in gravidanza stanno lasciando le loro case in Ucraina sperando di riuscire a partorire in luoghi più sicuri come rifugiate; altre invece finiscono per farlo nei tunnel della metropolitana di Kiev, diventata rifugio antiaereo… proprio qualche giorno fa lì è nata Mia. La sua foto ha fatto il giro del mondo, centinaia di articoli in decine di lingue diverse e non in uno è stato riportato il nome di sua madre. Senza sapere chi fosse ne abbiamo giustamente celebrato la forza e il coraggio. Mi piacerebbe che con la stessa intensità si onorasse anche la libertà di chi madre non vuole essere, né in tempo di pace, né in tempo di guerra.

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