In modalità simili rispetto a quanto occorso al suo predecessore Abu Bakr Al Baghdadi, e a non più di 20 km da dove anche quest’ultimo era stato eliminato dalle truppe americane, il quarantacinquenne Abu Ibrahim al Hashemi al Quraishi – leader dell’Isis dal 2019 – ha perso la vita giovedì nel nordovest della Siria. Al Quraishi si è fatto detonare, portando con se una serie di membri della sua famiglia – inclusi dei bambini, un suo “assistente” e sua moglie, secondo Washington, mentre secondo i soccorritori siriani il bilancio è di 13 vittime, di cui 4 donne e 6 bambini -, dopo essere stato circondato dalle forze speciali statunitensi, all’interno di un palazzo a tre piani nei pressi di Atmeh, nella Siria nord occidentale, non lontano dal confine turco. Nel momento della sua eliminazione si trovava in un’area della Siria nota per costituire un rifugio per varie organizzazioni militanti di stampo qaedista, come Hayat Tahrir al Sham.

Un duro colpo per l’organizzazione terroristica transnazionale, che per alcuni anni ha controllato un territorio esteso come la Gran Bretagna tra Siria e Iraq, e che negli ultimi, soprattutto a partire dalla scomparsa di Al Baghdadi, è sembrata rarefarsi nelle sue strutture portanti, anche per via della condizione di permanente clandestinità imposta proprio ai suoi leader, di cui si sa molto poco.

Se la capacità di organizzare spettacolari e complessi attentati in Occidente sembra essersi nel tempo ridotta, quella di mantenere un conflitto a bassa intensità tra Siria e Iraq appare tutt’altro che svanita, in particolare all’interno di aree con scarsa presenza americana. Non è forse un caso che secondo Hassan Hassan, autore con Michael Weiss di un celebre libro sullo Stato islamico, intervistato dalla Reuters, “l’Isis continuerà ad essere debole e sotto pressione se gli americani sono presenti in Iraq e Siria”. Solo due settimane fa, un improvviso raid in una prigione di Hasaka, nel nord della Siria, si era concluso con un bilancio di vittime di 77 guardie carcerarie, 4 civili e 374 detenuti, nonché potenziali membri dell’Isis da liberare. Si è trattato della più grande operazione militare dell’Isis sin dalla sconfitta di Baghouz, nel 2019. Sempre ad inizio gennaio, in Iraq, un attacco presso una base militare a Diyala ha visto 11 soldati iracheni uccisi. Questi elementi di cronaca sembrano rilevanti perché già nel 2012 e 2013, un anno prima di annunciare la nascita del Califfato a Mosul, l’Isis condusse una serie di operazioni simili in varie prigioni dell’Iraq, liberando centinaia di militanti. L’ultimo rapporto del governo americano parla di 182 attacchi in Iraq e 19 in siria, rivendicati da isis in un arco di 3 mesi.

Utile a capire quali saranno gli sviluppi futuri è proprio la strategia adottata oltre dieci anni fa dall’antesignano dell’Isis, cioè lo Stato islamico dell’Iraq. Sconfitto tra il 2007 e il 2009, il gruppo era scivolato velocemente nell’ombra, cercando di sfruttare nel lungo periodo la fermentazione della frustrazione sunnita nei confronti del governo iracheno a maggioranza sciita. Una volta capito che questa rabbia diffusa poteva essere utilizzata per un ritorno sulla scena, sono ricominciati gli attacchi menzionati, a partire dal 2012.

L’organizzazione, in un momento storico in cui sembra essere stata ricondotta ad una semi-clandestinità, mantiene comunque un significativo numero – nel peggiore dei casi qualche migliaio – di effettivi o potenziali affiliati, sparsi tra Siria e Iraq e oltre, che oggi potrebbero anche risultare “non attivi”, impegnati in attività quotidiane ma sempre pronti a ricollocarsi sul campo di battaglia dietro incentivi, riflette l’esperto Charles Lister, interpellato da Reuters, ricordando anche la accresciuta capacità dell’Isis di condurre “attacchi più sofisticati tra Siria e Iraq” negli ultimi mesi. L’assenza di una chiara leadership, oltre a poter scatenare il più classico dei conflitti per la successione, sembra poter paradossalmente rafforzare la dimensione della imprevedibilità dell’Isis, riflesso della maggiore “orizzontalità” della sua catena di comando. “Potrebbe esserci un conflitto interno per il controllo della leadership, che potrebbe a sua volta generare scissioni. Ma non mi aspetto che ciò avvenga su larga scala”, riferisce al Fattoquotidiano.it Colin Philip Clarke, analista politico e director of Research at The Soufan Group. Secondo la coalizione a guida statunitense, dopo le sconfitte del 2019 l’Isis ha mantenuto circa 15.000 militanti in cellule dormienti, tra cui almeno 3000 foreign fighters.

Al Quraishi – noto anche come Hajj Abdullah Qardash – era una figura oscura, che si muoveva in totale clandestinità, e secondo Washington è stato uno dei principali “ideatori” del genocidio degli Yazidi nel nord dell’Iraq, oltre che un importante tramite con gruppi affiliati in Africa e Afghanistan. “È una perdita importante per l’Isis, perché come abbiamo visto in passato con altri gruppi terroristici, una volta eliminata la leadership la comunicazione con le altre “filiali” in diverse regioni diventa più onerosa e complessa, e ha un impatto sulla frequenza degli attentati e sulla integrità della catena di comando”, aggiunge Clarke. “La mia preoccupazione è che l’Isis possa ora concentrare le sue risorse nell’organizzazione di rappresaglie contro obiettivi occidentali, un modo per attirare nuove reclute e rafforzare il morale dei suoi membri”.

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