Io non faccio spettacolo. Se volete il racconto degli schiaffi e delle botte che ho ricevuto, se siete qui per sentire una donna che piange e si lamenta, io mi rifiuto di rispondere”. Oggi 25 novembre, Giornata contro la violenza sulle donne, Yvette Samnick accetta di parlare, ma a una sola condizione: che si vada oltre le ipocrisie e si metta al centro del discorso il suo percorso di rinascita. Perché chi vive la sua stessa situazione sappia che “c’è una via d’uscita” dalla violenza e perché le istituzioni si rendano conto di quanto ancora si sentono sole le donne che denunciano in Italia. Samnick è operatrice interculturale di genere e antiviolenza dell’associazione Trama di Terre, l’onlus insieme alla quale la Fondazione del Fatto quotidiano ha lanciato borse di autonomia per le donne sopravvissute alla violenza. E’ nata in Camerun e in Italia è arrivata con una borsa di studio per l’università degli studi della Calabria ad Arcavacata di Rende dove si è laureata in Scienze politiche. Lì ha conosciuto il suo ex compagno: si è innamorata, ma poco dopo la gravidanza sono iniziate le violenze fisiche e psicologiche. Finché non è riuscita ad andarsene e denunciare. “Io l’ho fatto, ma sono passati quattro anni e il processo per maltrattamenti, violenza assistita ed odio razziale è ancora in corso. Come fa una donna a ricominciare?”. Ma non è solo la lentezza della giustizia a spaventare. “Quando ho cambiato residenza, nonostante l’affido esclusivo del figlio, il Comune voleva comunicare al mio ex il mio nuovo indirizzo“, rivela. “Lo Stato prima mi dice di denunciare e poi dà le chiavi di casa mia all’uomo maltrattante che se vuole viene e mi ammazza. Io ho reagito, ma a quante altre è successo?“. Per questo, dice, è urgente che si mettano in campo meccanismi di protezione subito dopo la denuncia e i centri antiviolenza sono fondamentali. Reagire e rendersi visibili quando ti vogliono invisibile: questa è la battaglia di Yvette Samnick che nel 2019 ha pubblicato il libro “Perché ti amo” (Pellegrini editore) con la sua storia. Oggi lavora con le donne migranti e insieme a loro lotta contro gli stereotipi che le descrivono “incapaci di parlare, ridotte a cose e con corpi iper sessualizzati”: “Noi abbiamo voce. Non la chiediamo, la rivendichiamo“.

Stiamo sbagliando il modo in cui raccontiamo la violenza contro le donne?
Io per oggi ho rifiutato tutte le interviste. E’ tipico della cultura patriarcale: mi cercano perché vogliono ascoltare la donna vittima che si lamenta. Ma io sono stufa, non voglio essere vista così. Ho già pianto abbastanza.

E come vuole essere vista?
Non serve a niente che racconti quanti schiaffi ho ricevuto, perché chiunque ha sentito parlare di violenza fisica sa di cosa si tratta. Voglio invece ragionare su quello che ho vissuto, su dove sono arrivata e i percorsi che ho fatto con i centri antiviolenza. Queste sono riflessioni che possono interessare le donne che vivono la mia stessa situazione.

Partiamo dall’inizio. Come si finisce in una storia violenta?
Le dinamiche della violenza in un rapporto affettivo iniziano dal primo giorno, dal primo secondo che incontri l’uomo maltrattante.

Possibile che sia così presto?
Sono segnali impercettibili. Quando penso alla mia storia, so che sono iniziati fin dal primo giorno e io non ero attenta.

Ad esempio?
Lui vuole fare il protettore. Se ti vesti in un certo modo non va bene, non perché a lui dà fastidio, ma perché gli altri ti possono fare del male. Prima ti distrae e accusa gli altri, poi piano piano diventi tu il problema fino a che tu gli credi. Gli esempi sono tanti: ti devi giustificare quando rispondi al telefono, lui si arrabbia per qualsiasi cosa. Solo che poi ti viene a chiedere scusa.

E basta per andare avanti?
Ogni volta che ti ferisce, poi chiede scusa e dice quanto ti ama. Questo è uno dei meccanismi di violenza psicologica. Tu abbassi la guardia. E farai la stessa cosa quando scatterà la violenza fisica. Ti darà delle botte, si scuserà. E tu? Lascerai passare e accetterai le scuse. Un cerchio senza fine.

Perché si accettano le scuse?
Lui costruisce una gabbia intorno a te con l’obiettivo di isolarti. Non ti dirà mai che ha un problema. Rinvierà sempre la colpa sugli altri. Tu ti racconterai che lo fa perché ti ama, che probabilmente ha ragione. E sarà la stessa cosa quando ti farà violenza. Solo che a quel punto ti vergogni, perché non hai ascoltato chi ti aveva avvertita. E ti richiudi ancora di più, ti isoli. Ed è quello che serve a lui per avere il dominio su di te.

Perché non ha riconosciuto quei segnali per tempo?
Ora vedo la mia storia con occhi diversi e riconosco tre livelli che si sovrappongono. Il primo riguarda la dinamica di inferiorità\superiorità che scatta nei rapporti misti: da noi l’uomo bianco è considerato superiore e anche se avevo studiato più di lui, nella mia testa restava l’idea che lui era bianco e io nera. Il secondo livello riguarda la cultura patriarcale in cui sono cresciuta. Perché da dove vengo, la legge viene scritta sul corpo delle donne e fin da piccola ho assorbito la violenza.

Nel suo libro ricorda i maltrattamenti subiti dalla madre. E a lei hanno sempre insegnato che una donna non può stare sola.
Puoi avere tutti i titoli di studio che vuoi, ma quell’educazione è una macchia che difficilmente se ne va. È un peso inconsapevole.

E c’è chi ne approfitta.
Infatti c’è un terzo livello, ovvero la mancanza di informazioni corrette. Io non conoscevo veramente le legge di questo Paese e mi fidavo molto di quello che mi diceva. Non ho mai messo in dubbio la sua parola perché non avevo alternative: lui lo sapeva e ne abusava. Diceva che potevano portarmi via il bambino se me ne fossi andata, che avrei perso il permesso di soggiorno e che se avesse voluto, avrebbe potuto togliermi tutto. Io gli credevo. Non sapevo di avere dei diritti.

Si può uscire da un rapporto violento?
Sì e no. Io posso dire che sono stata fortunata perché ho incontrato le persone giuste. La donna che sono oggi è nata ed è stata costruita in un centro antiviolenza. E di questa donna io sono tantissimo fiera ed orgogliosa. Certo che si può uscire, che ci si può ricostruire però il problema oggi, lo sappiamo tutti, in Italia è la violenza istituzionale.

Che cosa intende?
Io non me la prendo con le donne che si rifiutano di denunciare. Ad un certo punto della mia vita mi sono chiesta chi me l’ha fatto fare: ho denunciato il mio ex compagno, ma dopo quattro anni il processo è ancora in corso. Quattro anni. Come fa una donna ad andare avanti? Quando si denuncia, rimani sola.

Pensa di essere ancora in pericolo?
Il percorso del processo penale e quello civile per l’affido di mio figlio sono separati, non c’è comunicazione, e io all’inizio mi sono ritrovata a dover subire un affido condiviso con un uomo che mi ha fatto del male. E anche ora che il tribunale ha deciso per l’affido esclusivo a me, quando ho fatto il cambio di residenza, mi hanno scritto per comunicare al mio ex compagno l’indirizzo del figlio minore. Ma lui non vive solo, vive con me.

Com’è possibile che sia partita questa richiesta?
Lui non solo non cerca il bambino da cinque anni, ma ha anche chiesto al giudice di non pagare gli alimenti. Eppure uno dei suoi diritti sarà sapere sempre dove è suo figlio. Ma comunicando il mio indirizzo, gli date la possibilità che se gli gira la testa mi ammazza o mi fa ammazzare. Questa è irresponsabilità.

Allora cosa ha fatto?
Io ho reagito perché sono un’attivista, sono una femminista e sono riuscita a bloccare la richiesta. Non me la prendo con l’impiegato della pubblica amministrazione, ma con lo Stato, perché non mi può dire “vai a denunciare” e poi dà le chiavi di casa mia all’uomo maltrattante. Oggi è successo a me. Ma a quante è successo che non hanno saputo reagire?

Secondo l’ultimo rapporto D.i.Re solo il 27 per cento delle donne che subiscono violenza denuncia.
Il problema è che non vengono attivati realmente dei meccanismi per proteggere le vittime.

Eppure, la politica, oggi più che mai, rivendica di essere in prima linea per le donne.
Io lavoro con le donne migranti. A chi frega dei loro traumi? Lo Stato parla di violenza contro le donne e poi fa gli accordi con la Libia. Noi le incontriamo le donne che vengono dalla Libia: stuprate, vittime di tratta, maltrattate con dei segni e dei traumi indicibili. E i politici vanno a fare le conferenze sulle donne, a dire che viviamo in uno Stato di diritto. Sono storie atroci. A volte la gente mi chiede, ma come fai a lavorare e sopportare tutte queste storie.

E come fa?
Io mi curo curando altre donne.

Le donne vittime di violenza rischiano di essere invisibili per lo Stato, le straniere ancora di più?
Io sono invisibile, ma mi so rendere visibile. A Trama di Terre faccio un laboratorio di scrittura che si chiama “Il mio nome non è migrante”. Lottiamo contro lo stereotipo secondo cui le donne migranti non hanno studiato, non parlano e non sanno parlare. Noi sappiamo parlare, abbiamo voce. Non è che la stiamo chiedendo, la rivendichiamo. Io ascolto queste ragazze e mi rendo conto di quanto è profondo il male che hanno subito: loro hanno voglia e hanno energia per lottare, ma non trovano uno spazio per farlo.

Oltre alla violenza, lei ha raccontato discriminazioni quotidiane.
Un uomo un giorno per strada mi ha detto: “Non ho mai assaggiato una figa nera”. E’ questo che siamo per loro: il nostro corpo è iper sessualizzato, è come se fossimo delle cose disponibili per tutti. E’ uno stereotipo che ha radici molto profonde, fin dai tempi del colonialismo. Ma non è solo questo. Quando dico che lavoro, mi chiedono se faccio la badante o le pulizie. Perché le donne nere si pensa che possano fare solo lavori di cura.

Se lo Stato vuole davvero aiutare le donne vittime di violenza, qual è l’intervento più urgente?
Quando una donna denuncia, deve essere attivata subito una rete di protezione che riguardi tutti i fronti: dai servizi sociali alla pubblica amministrazione. Ci dev’essere una copertura completa e i vari ambiti devono comunicare.

Anche Juana Loayza, uccisa a Reggio Emilia pochi giorni fa, aveva denunciato l’uomo che l’ha sgozzata.
Per questo è importante cercare un centro antiviolenza e avere una rete di protezione. Perché il problema è cosa succede dopo essere andati dalle forze dell’ordine e se sei sola, il pericolo rimane.

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