Glasgow non ha partorito risposte oneste e consapevoli alla sfida climatica che l’umanità dovrà affrontare in questo secolo e, verosimilmente, nel prossimo. Dal rilancio dell’opzione nucleare alla mobilità elettrica, molte misure sembrano rispondere a istanze industriali e commerciali piuttosto che alla necessità di costruire una risposta sostenibile al riscaldamento globale di origine antropica. Emerge ancora una volta l’impotenza planetaria delle istituzioni globali, inermi tanto di fronte alla proliferazione di armamenti apocalittici quanto nei confronti delle catastrofi ambientali.

La maggiore delusione nasce da due questioni. Da un lato, Glasgow ha accantonato qualunque visione planetaria delle misure di adattamento. Dall’altro, un silenzio opprimente è calato sulle sorgenti di emissioni del tutto inutili. E spesso anche nocive alla salvaguardia dell’ambiente, del paesaggio, degli ecosistemi, della qualità della vita. La concezione commerciale della vita sociale – fondamento dell’assioma di una crescita ineluttabile della domanda e, quindi, della produzione di energia – non risolve ma peggiora questioni essenziali. Non solo la mobilità o il cemento, ma perfino l’estrazione delle criptovalute, archetipo dell’impotenza del genere umano di fronte a una sfida planetaria.

Da buon genovese nutro una certa diffidenza verso i Bitcoin, ma non nascondo parecchia invidia per coloro che, a suo tempo, hanno approfittato con sagacia di questa opportunità di investimento, apparentemente bizzarra. Il Bitcoin, così come le altre criptovalute, è stato criticato per molte ragioni. Per esempio: la volatilità dei prezzi, gli elevati e mutevoli costi di transazione, la discutibile sicurezza e il possibile impiego in affari illegali. La critica più consistente, però, riguarda la voracità energetica del sistema.

Le criptovalute vengono ricavate per via informatica attraverso il cosiddetto mining. È la procedura con cui nuovi Bitcoin vengono estratti dal cosmo della rete informatica e aggiunti all’ecosistema delle criptovalute. E chiamare ecosistema quello delle criptovalute è un ossimoro che suggerisce all’umanità l’urgente necessità di qualche seduta di psicoanalisi.

L’estrazione comporta calcoli complessi, basati su tortuose equazioni matematiche la cui utilità scientifica mi sfugge. La procedura è estremamente dispendiosa in termini di energia, poiché il calcolo numerico richiede apparecchiature informatiche potenti e costose. I dati del Bitcoin Electricity Consumption Index della Università di Cambridge mostrano che la rete Bitcoin consuma circa 150 terawattora (TWh) di elettricità ogni anno, altre fonti indicano un consumo aggiornato di oltre 200 TWh/anno. Sono cifre enormi, superiore al consumo energetico di molti paesi.

L’impronta elettrica della moneta virtuale è quasi dieci percento dell’intera produzione energetica della Russia, il 27 per cento del fabbisogno del Regno Unito, il 75 per cento di quello un paese come l’Olanda, il 126 per cento dell’energia consumata nella Repubblica Ceca. Il sistema ha anche un potente, disastroso effetto di retroazione positiva: più cresce il reddito dei minatori di valuta, più diventa potente il macchinario di cui costoro possono avvalersi. E aumenteranno così anche i consumi di energia dell’ecosistema criptovalutario.

Il recente accaparramento di schede grafiche avanzate, assai utili alla bisogna del mining, ha fatto salire alle stelle il costo di questo strumento nel 2020/21. Invero, sono di schede nate per costruire contenuti visivi di alta qualità, ma le loro prestazioni fanno gola ai minatori. E la borsa nera infografica ha messo in crisi i creativi di tutto il mondo.

Il fantastico “ecosistema” delle criptovalute vale, in termini di voracità energetica, come una nazione di medie dimensioni. E si posiziona attorno alla venticinquesima posizione della graduatoria delle nazioni più energivore. La potenza giornaliera richiesta dai minatori di valuta rasenta la metà della domanda italiana in un giorno qualunque, ma con sbalzi che possono superare anche quella massima del nostro paese nell’ora di massimo consumo (vedi Figura).

Probabilmente sono troppo ignorante per capire l’importanza economica, sociale, culturale e teologica delle valute virtuali. Mi permetto così una domanda. Terra terra. Sarebbe stato un grave danno per il pianeta se il Cop26 di Glasgow avesse adagiato le criptovalute nel dolcissimo limbo in cui sono finite le speculazioni immobiliari realizzate nel mondo virtuale di Second Life? Non lo chiedo per me, ma per un amico del ventiduesimo secolo.

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