Nonostante la Cina stia flirtando a livello politico con i Talebani fin dal loro ritorno al potere in Afghanistan, le notizie che arrivano dal Tagikistan raccontano una storia diversa. Pechino ha infatti siglato un accordo con il governo della Repubblica centro asiatica per realizzare una base militare in territorio tagico, al confine con l’Afghanistan.

L’intesa è stata approvata dal parlamento di Dushanbe – che non ha margini di manovra se non assecondare i desideri del dittatore Rahmon – e porterà a un investimento di 10 milioni di dollari per la costruzione di un avamposto che sarà poi gestito dalle forze armate tagiche. Non solo. Nell’ambito di questa rinnovata cooperazione militare, il Tagikistan avrebbe offerto alla Cina il pieno controllo di un’altra base al confine con l’Afghanistan, attiva da almeno cinque anni, finora operata da forze cinesi ma sotto il controllo tagico. Quest’ultima offerta prevederebbe come contropartita, a fronte del rifiuto da parte del Tagikistan di qualsiasi rivendicazione futura sul sito, un supporto militare da parte di Pechino a Dushanbe in termini di equipaggiamento e finanziamento.

Al di là dei dettagli, il significato dell’intesa è evidente: la Cina vuole tutelarsi contro eventuali infiltrazioni terroristiche provenienti dall’Afghanistan. Come spesso succede, le autorità cinesi puntano a mettere in campo tutto il loro pragmatismo. Le risorse afgane fanno gola e, per accedervi, i Talebani sono degli interlocutori imprescindibili. Ma questo non impedisce a Pechino di provare a prevenire potenziali grattacapi futuri, qualora gli annunci concilianti del movimento estremista non si rivelassero fondati. Una delle più grandi paure di Pechino, infatti, è che i militanti uiguri dello Xinjiang, regione cinese a maggioranza musulmana in cui il governo sta portando avanti quella che molti osservatori definiscono una pulizia etnica, possano trovare sponde esterne.

Ecco quindi spiegata la ragione profonda dell’accordo che, se confermato, porterà i cinesi a ottenere ufficialmente il pieno controllo di una seconda base militare all’estero, dopo quella di Gibuti. Xi Jinping sembra quindi muoversi in una direzione che potrebbe portarlo a rivedere uno degli storici pilastri sui quali è stata costruita la politica estera della Repubblica Popolare negli ultimi decenni, quello della non interferenza negli affari interni di altri paesi.

Guardando invece alla notizia dal lato tagico, il ruolo di strenuo oppositore dei Talebani che Rahmon si è ritagliato sembra stia iniziando a dare i suoi frutti. Dall’agosto scorso, il leader del Tagikistan continua infatti con cadenza periodica a criticare con veemenza quanto avviene in Afghanistan, ponendosi come baluardo della cospicua minoranza di etnia tagica che risiede in territorio afgano, pari a più di un quarto della popolazione complessiva del Paese.

Nelle ultime ore è emersa un’indiscrezione che, se confermata, potrebbe ulteriormente posizionare Rahmon in prima fila e mettere ancora più sotto i riflettori le mosse cinesi. Alcune fonti locali hanno infatti dichiarato che il Fronte di Resistenza Nazionale dell’Afghanistan, guidato da Ahmad Massoud, il figlio del leggendario capo militare conosciuto come “il Leone del Panjshir”, avrebbe aperto una sede di rappresentanza proprio nella capitale tagica. Una notizia dai contorni ancora poco chiari, che avrebbe tutte le sembianze di una potenziale miccia in grado di far detonare il conflitto, per ora solo dialettico, che coinvolge Tagikistan e Afghanistan.

Al netto della reale preoccupazione che l’instabilità afgana possa interessare anche il suo regno assoluto, Rahmon continua ad alimentare lo scontro anche per accrescere il suo peso internazionale e ottenere aiuti finanziari o militari. A livello politico la scommessa ha già pagato: a metà ottobre il presidente tagico è stato accolto con tutti gli onori a Bruxelles, dove ha incontrato il Presidente del Consiglio Europeo, Charles Michel, e a Parigi, dove ha tenuto un colloquio a quattr’occhi con Emmanuel Macron. E ora ecco l’intesa militare con la Cina, impensabile fino a pochi anni fa, considerando che la Russia ha una fortissima influenza sul Tagikistan, paese in cui si trova la più grande base militare all’estero controllata dal Cremlino.

Considerando gli ingenti investimenti effettuati nell’area e le preoccupazioni legate alla stabilità regionale, per Pechino l’Asia Centrale sembra destinata a diventare sempre più importante anche dal punto di vista della sicurezza. Una sfera in cui la Russia l’ha fatta da padrona fin dal crollo dell’Unione Sovietica. Proprio Mosca sembra però disposta – volente o nolente – a scendere a patti con una più profonda penetrazione militare cinese nella regione. Un atteggiamento che invece ovviamente non si riscontra nei confronti degli Stati Uniti.

Solo pochi giorni fa il ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov, si è fatto portavoce delle cancellerie centro asiatiche affermando che nessuno dei paesi dell’area sarebbe disposto a ospitare truppe statunitensi o Nato sul proprio territorio. Una dichiarazione da intendersi come un duplice avviso, diretto sia a Washington sia ai partner regionali della Russia che eventualmente starebbero accarezzando l’idea di aprire a questa strada. È innegabile come l’Asia Centrale, per anni ignorata tanto dai governi occidentali quanto dall’opinione pubblica internazionale, stia godendo di un periodo di popolarità inatteso. Situazione che sta portando Mosca a riaffermare a ogni occasione utile la sua volontà di mantenere intatta la propria influenza sulla regione.

Non è un caso che Vladimir Putin sia stato il primo leader in assoluto a congratularsi con Shavkat Mirziyoyev, rieletto alla guida dell’Uzbekistan il 24 ottobre. Il trionfo era così scontato che il Presidente russo ha inviato il suo messaggio ancora prima che i risultati ufficiali venissero comunicati. L’Uzbekistan è, al contrario del Tagikistan, il paese dell’area che più sta lavorando per un dialogo politico con i Talebani, perché l’Afghanistan è un tassello fondamentale degli obiettivi infrastrutturali di Mirziyoyev. Obiettivi che sono stati e vengono perseguiti anche attraverso un’apertura alla cooperazione regionale impensabile fino a solo pochi anni fa, ma che potrebbe ora essere ostacolata dalle diverse reazioni dei governi dell’area alla situazione afgana.

Articolo Precedente

Cop26, Biden contro Xi Jinping: “Ha commesso un grande errore a non venire. Gli Stati Uniti vogliono guidare il mondo”

next
Articolo Successivo

Fora Bolsonaro, una vergogna la cittadinanza onoraria dei leghisti

next