“L’Egitto è diventato un’oasi di sicurezza e stabilità nella regione. Per questo motivo ho deciso di revocare lo stato d’emergenza”. Il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi ha comunicato a tutto il Paese la decisione di non estendere di altri tre mesi, la cadenza naturale del provvedimento, lo stato di emergenza in cui lui stesso lo ha tenuto dall’aprile del 2017. Valutando la situazione attuale dell’Egitto, la dichiarazione di al-Sisi è paradossale se si considerano le vite sospese di centinaia di prigionieri politici, una buona parte dei quali in attesa di giudizio con la loro detenzione rinnovata oltre i due anni, come previsto dalla legge: “Per loro non cambierà nulla -spiega Gamal Eid, tra i più accesi rivali del regime e leader di Anhri, una ong del Cairo – Abu Al-Fotouh, Muhammad Adel, Ziad Al-Alimi, Al-Baqer, Alaa Abdel Fattah, Amr Imam, Muhammad Al-Qassas, Ola Al-Qaradawi e altre centinaia di detenuti sono imprigionati in custodia cautelare da più di due anni. Cosa devo dire loro, di stare tranquilli? Abbiamo abolito l’emergenza, ma tutto resta come prima”.

La misura comunicata lunedì sera arriva alla vigilia di una serie di processi molto importanti. Il 1 novembre è fissata l’udienza nei confronti di Alaa Abdel Fattah, il suo avvocato Mohamed al-Bakr e il blogger Mohamed Oxigen. Il giorno dopo tocca a Hossam Baghat, direttore dell’Eipr, la ong con cui ha collaborato a lungo Patrick Zaki, accusato di aver criticato con un tweet l’ex presidente dell’Autorità elettorale nazionale, Lashin Ibrahim. Infine l’appuntamento del 7 dicembre con la sentenza di uno dei casi affibbiati a Patrick Zaki, quello per gli articoli in cui accusava il governo di discriminare i cristiani copti.

Il dittatore egiziano parla di un Paese pacificato (anche se nella regione del Sinai, un’altra bega per il suo regime, lo stato d’emergenza resta in vigore) per giustificare la sua scelta che di straordinario ha poco. Sono molti i detrattori della misura, ritenuta soltanto un’opera di maquillage per rendere meno terribile la repressione dei diritti umani e civili in Egitto.

Cosa cambia di fatto con questo annuncio? Nella pratica dovrebbe cambiare molto, soprattutto per quanto concerne l’aspetto giudiziario, in sostanza invece rischia di restare tutto come prima. D’ora in avanti le persone arrestate dalla Nsa non saranno più giudicate in base alla legge prevista dallo stato d’emergenza, la 162 del 1958. Secondo gli articoli 19 e 20 della legge di emergenza, i tribunali supremi di sicurezza dello Stato rimangono competenti per tutti i casi attivati sotto questa egida, mentre i casi ancora in fase di indagine e quelli a venire saranno deferiti ai tribunali ordinari. Tenendo fermo il concetto del condizionale d’obbligo, viene ristabilito dunque il sistema ordinario dei processi, torna il grado di Appello (inserito all’interno del processo di primo grado) e tornano le udienze alla presenza regolare degli avvocati, particolare spesso non garantito, specie nei confronti dei procedimenti a detenuti ‘eccellenti’. Fino all’altro ieri le persone fermate sparivano per giorni, a volte settimane se non addirittura mesi prima di comparire davanti a un giudice (qualcosa di molto simile al nostro Gip) che decretava il primo periodo di detenzione per 15 giorni in attesa di giudizio. Tutto ciò, in linea teorica, ora non potrà più accadere.

Tuttavia, la vera vittoria per gli oppositori del regime sarebbe stata la cancellazione dei reati previsti dalla legge sul terrorismo, il passaggio decisivo. Come ricordato da Gamal Eid, la detenzione per i detenuti in attesa di giudizio non cambia, sia a livello processuale che formale. Inoltre, non è prevista alcuna novità sul giro di vite nei confronti dell’informazione e della censura verso giornali, siti e tv ostili al regime, sul sistema di spionaggio e di svuotamento dei diritti degli arrestati: “Certo questo è un segnale che va colto con ottimismo – spiega un portavoce di Ecrf, la ong che dal 2016 segue la famiglia di Giulio Regeni -, ma da solo non serve a nulla. Assieme ai colleghi delle altre organizzazioni abbiamo inviato una lista di 7 richieste al governo egiziano per pacificare davvero il Paese. Per ora, con la revoca dello stato d’emergenza siamo fermi a una. È chiaro che non ci basta”.

Ed eccole le richieste presentate dal ‘cartello’ di ong egiziane, l’altro nemico del regime assieme alla Fratellanza Musulmana: “Liberare tutti i prigionieri politici – precisa un documento inviato da Afte, l’organizzazione che legalmente sta seguendo il caso di Ahmed Samir Santawi, quasi identico a quello di Patrick Zaki -, fermare i rinnovi periodici delle detenzioni e revocare l’azione criminale dello Stato verso la società civile, oltre a sbloccare la censura nei confronti dei mezzi di informazione ostili al regime, imbavagliati in questi anni”.

Lo stato d’emergenza ha caratterizzato quattro anni e mezzo tra i più bui della storia egiziana. Tutto è partito dagli attacchi alle chiese copte di Alessandria e Il Cairo per arrivare alle proteste veementi per la cessione all’Arabia Saudita delle due isole nel Mar Rosso, Tiran e Sanafir: sono questi i fatti che spinsero all’epoca al-Sisi a dare mano libera alla National Security Agency per reprimere sul nascere, di fatto, qualsiasi tentativo di sovvertire il regime. Erano i tempi del più grave depistaggio orchestrato dal Cairo sull’arresto, le torture e la morte di Giulio Regeni, con i cinque civili innocenti accusati di essere la banda responsabile del crimine e poi sterminati, i tempi in cui Patrick Zaki svolgeva il suo lavoro di ricercatore in ambito di diritti di genere per conto dell’Eipr, prima della chance di studiare in Europa, a Bologna. Oggi, quattro anni e mezzo dopo, l’iter processuale nei confronti dei presunti responsabili dell’omicidio Regeni rischia di essere cancellato e Zaki è in cella nella prigione di Tora in attesa dell’udienza del 7 dicembre prossimo.

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