L’ultimo esaminando è Aliosha, ucraino naturalizzato, diciott’anni. Pallido, felpa nera. Parla malvolentieri un italiano svogliato. Ci troviamo nell’aula magna della scuola d’arte dove insegno illustrazione editoriale. Indossiamo le mascherine ma finalmente ci annusiamo e ci tocchiamo, dopo mesi di lontananza fisica.

Il titolo del suo libro per l’esame di illustrazione è INDIFFERENZA. L’ha scritto e disegnato nel periodo del Covid. Sfoglio il libro. I disegni sono un po’ tirati via, sciatti, il testo sletterato, ma è comprensibile, l’italiano non è la sua lingua..

Ma perché non ti sei fatto aiutare da me? Mi avrebbe fatto piacere… mi pagano per questo, Aliosha”. Alza le spalle. Il tema del suo lavoro però mi colpisce: il buio. Il protagonista (un alias dell’autore, incappucciato, dark) ci è sprofondato. Niente lo tocca, i sentimenti sono congelati, è indifferente a tutto, solo l’oscurità lo rassicura. Vive in un buco nero lontano dalla superficie della terra, dall’umanità. Ma ecco che all’improvviso un raggio di sole fa capolino nella sua grotta-cuccia. Il protagonista cerca di toccarlo, spera che il calore sciolga il cuore-ghiacciolo che ha nascosto sotto la felpa… ma la fiamma viva lo scotta.

Noto che ha finalmente usato i gialli e i rossi che illuminano il cupo fondo nero. La storia dark si anima. Appare un fumetto: AAAHHHHH. E’ un urlo di dolore. Lo smilzo torna a rifugiarsi nel buco nero. “Meglio fidarmi solo di me, starmene come un topo nella fogna, lontano dal sole che uccide”. Conclude così più o meno il nostro eroe. Ne deduco che la luce, per Aliosha, significa sentimento-vita-socialità-strada-muretto-amicizia-amore, cose “pericolose”, insomma, roba che scotta. Il buio al contrario è tranquillità-sonno-rifugio-calma. Il nero é più semplice da usare per noi pittori rispetto ai toni caldi, così aggressivi. Rifletto. Mi si stringe il cuore.

“È così che ti sentivi in questi mesi? Al buio?”, gli chiedo.

“Sì, prof”

“Stai meglio ora?”

“Boh”. È a disagio, ballonzola sulle gambe magre.

Scrivo i voti e firmo i libretti. 18, 21, 23, 26. “Ehi ragazzi, avete fatto lavori mediocri, siete d’accordo? Storie belle, temi forti, disegni brutti… si capisce che non ve ne fregava un accidente della scuola…”

“Prof, quando te ne stai tutto il giorno per mesi sdraiato sul letto a fumare e a spararti videogames non è che hai voglia di disegnare”, interviene Mauro. “Non c’è nulla da dire, nulla da creare. Di che parli se non ti succede nulla? Per noi vivere vuol dire stare con gli altri. È allora che ti vengono le idee. Ma gli altri non c’erano. Abbiamo perso quasi due anni di vita. La scuola ne dura tre”

“E costa pure un botto”, aggiunge Floriana.

In effetti… penso. “Ma perché non uscivate di casa almeno una volta al giorno? Potevate farlo per legge”

“A me non me ne fregava nulla di uscire e comunque me lo vietavano i miei…” dice Paola.

“Cosa? E perché te lo vietavano?”

Avevano paura che li infettassi se andavo a giro per strada. Erano imparanoiati. Abbiamo vissuto in una stanza di 12 metri quadrati io e i miei tre fratelli, un letto a castello e un divano letto. Un macello, prof, un casino…”

Mi ricordo delle mie lezioni in dad durante il lockdown. Non stavo meglio di loro. Attraverso lo schermo scrutavo le stanzette sporchicce dei ragazzi, i letti malfatti, le cicche ovunque, gli abiti sparpagliati e le lattine di birra ovunque. Una volta, durante la lezione, vidi passare un uomo in pigiama sullo sfondo, cercava il martello borbottando. Il mio alunno, inquadrato dalla webcam in quel momento, è arrossito dalla vergogna. “Caz… mi scusi prof, quello è mi padre”. Sono tutti scoppiati a ridere, i pochi che erano online. Io no, non ho riso, provavo pena per quella famiglia sfigata, tartassata. Ero più esasperata di loro: “Riaccendete la telecamera e il microfono! Come accidenti ve lo devo dire!” E togliete la modalità frozen!! Non sono un’idiota!”. Era il mio mantra. Frozen era la moda del momento per assentarsi dalla lezione dad, per fregare noi prof. Un’icona che mostra il ragazzo immobile e attento. Un fake.

Me ne stavo in cucina, malvestita dalla vita in giù. Felice di essermi “tecnologizzata”, di essere uguale ai miei colleghi più giovani… e poi che bello farsi un caffè tra un’interrogazione e l’altra senza andare al bar. Ma quando finiva la lezione e i quadratini dei miei ragazzi si “spegnevano”, mi rimaneva un senso di vuoto terribile, incolmabile. Io li voglio di fronte a me, pensavo. Voglio sentire il loro odore, voglio vedere gli occhi e la bocca, le dita che muovono pennelli e gessetti, voglio cogliere le espressioni, voglio sentire il chiacchiericcio e incazzarmi con loro.

Solo con questi segnali, noi marziani artisti, noi che spesso ci sentiamo inutili… solo con queste emozioni tattili come l’olio che si asciuga sulla tela, riusciamo a insegnare l’arte.

Articolo Precedente

Columbus Day intitolato ai nativi americani: la ragione non risiede nella ferocia della conquista

next
Articolo Successivo

Fare un allaccio Enel? Per me una via crucis piena di intoppi burocratici

next