“L’obiettivo di aumentare il Pil il più possibile è in contrasto con l’arresto del cambiamento climatico. L’azione dei governi è insufficiente”, il monito del neo premio Nobel Giorgio Parisi nel suo intervento di ieri a Montecitorio.

Parole di grande saggezza, in palese contrasto con la modificazione in corso dello spirito del tempo, dopo la breve ondata di altruismo solidale che ci aveva portato a sentirci tutti più buoni nella fase iniziale del contagio pandemico. Quando le parole di battitori liberi, come il presidente di Confindustria Macerata, Domenico Guzzini (quello che pretendeva la riapertura immediata delle fabbriche nonostante il Covid “e se qualcuno muore… pazienza”), sembravano bizzarrie di personaggi borderline. Tesi irresponsabili, da stigmatizzate immediatamente da parte dell’esecrazione generale.

Oggi il pittoresco Guzzini risulta un lungimirante antesignano dello stile argomentativo che impronta quanto sta avvenendo nelle viscere di una società entrata in piena fase di restaurazione controriformista. A evidente smentita dell’adagio ottimistico secondo cui dopo la pandemia “niente sarebbe più stato come prima”.

Ho appena ricevuto un intervento sui social di un mio autorevole discussant dell’establishment padronale. Un imprenditore-intellettuale tra i più importanti siderurgici europei. Non un Carlo Bonomi qualunque, il commerciante eletto presidente di Confindustria con il mandato di fare incetta di sussidi a favore della categoria (agitando come una clava l’epiteto infamante di “Sussidistan” contro chi proponga aiuti per chi ha davvero bisogno). Un testo dal titolo accorato “L’industria è il futuro dell’Europa e dell’Italia: proteggerla nella transizione”, in cui si legge che “l’Europa ha deciso di essere la prima e più virtuosa area del mondo nel climate change […] si tratta di un azzardo perché non è affatto detto che le altre grandi potenze seguano lo stesso percorso, negli stessi tempi e con le stesse modalità. […] Ciò significa favorire il mercato e abbandonare processi eccessivamente dirigistici che rischiano di essere rigidi e non cogliere appieno l’evoluzione tecnologica e l’innovazione. Questo adattamento è il compito delle imprese non della politica”.

Un’argomentazione non diversa in quanto a messaggio da quanto va dichiarando nella sua maniera rozza il sedicente ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani (che ritengo nuclearista, qui lo dico qui lo nego), mentre dà via libera a nuovi interventi di trivellazione: la transizione ecologica è “questione complessa, non c’è una soluzione semplice come sentiamo dire da chi strilla, sono problemi tridimensionali che toccano la giustizia sociale, il lavoro. Io non ne posso più di sentire demonizzare l’industria. Non si può cambiare tutto in un giorno. Vanno create le condizioni infrastrutturali, tecnologiche, fare crescere anche il mercato della domanda, cambiare il modello produttivo e industriale, ma dobbiamo farlo in maniera sostenibile e la sostenibilità è anche garantire il lavoro. Io trovo quasi offensivo sentire dire che questo è contro l’ecologia”.

Ma il Cingolani è un maldestro seguace della tattica che Pep Guardiola applicava nel Barcellona di non dare mai punti di riferimento all’avversario. Difatti si capisce subito che il suo obiettivo è quello di creare guerre tra poveri diversive, mettendo in contrapposizione salute e lavoro. Come – del resto – si è fatto da anni all’Ilva di Taranto mettendo contro ambientalisti e sindacalisti, per consentire a un comando manageriale inquinatore di farsi bellamente gli affaracci propri.

Un saggio di Wolfang Streeck, direttore emerito del Max Planck di Colonia – in uscita presso l’editore Melteni – ci illustra chiaramente il senso di queste politiche: fare in modo che operai sfruttati e ceti medi non si incontrino, affinché “non parlino mai la stessa lingua e non sperimentino mai insieme la comunità e la solidarietà che derivano dall’azione collettiva”.

Il fatto sconfortante che questa tecnica è diventata la strategia a tutto campo del governo guidato dall’algido banchiere Draghi, con i suoi condoni, con le concessioni demagogiche a Salvini in materia di aperture delle balere. Pura restaurazione orleanista sotto la copertura dell’imperscrutabile e mellifluo ex Goldman Sachs. E l’ovazione ricevuta durante l’assemblea di Confindustria ci lascia capire da che parte stia Mario Draghi, tra Giorgio Parisi e Carlo Bonomi.

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