“Ho un messaggio vocale di un parente che dice che mancano l’acqua e il cibo: questi poveri anziani hanno fame, si allettano da soli, le terapie non vengono somministrate. E i parenti non possono entrare”. Come racconta Massimo Scialanca della Cisl imperiese, la Rsa Casa Serena di Sanremo già al centro di un caso di cronaca per la morte di un’ospite, è arrivata anche a questo punto quando il sindaco il 22 settembre ha dato al gestore 10 giorni per mettersi in regola. Ma dieci giorni sono un’eternità per chi ci vive, con le irregolarità che per altro erano già state rilevate dalla super asl ligure Alisa dopo la disgrazia di inizio settembre: minuti di assistenza al di sotto dei parametri minimi, assenza del personale infermieristico, mancanza della fisioterapia, cucina non attrezzata a dovere.

Il caso della struttura del ponente ligure, dove all’inizio di settembre un’anziana è morta soffocata dalle cinghie di contenimento che la legavano al letto, è solo la punta dell’iceberg di un sistema che annaspa a scapito soprattutto di chi ci vive e di chi ci lavora. La vicenda, che per di più riguarda una struttura comunale appena affittata a un privato, è esemplare perché al di là del singolo episodio e della particolare situazione di Casa Serena, ha scoperchiato la pentola delle sofferenze del settore. Inadeguatezza del personale, davvero troppo poco, spesso sotto la soglia della sopravvivenza e sempre meno formato, scarsità di risorse a disposizione tanto che si risparmia su cibo e pulizie e politica che si barcamena davanti a quegli imprenditori che, invece di inventarsi soluzioni innovative, cercano di massimizzare il profitto o minimizzare le perdite, mentre la congiuntura tira in senso opposto. E i controlli diretti o indiretti sono pochi, anche perché il cuore delle strutture è ancora inaccessibile al pubblico e la vigilanza non è stata implementata di pari passo con le chiusure.

“È chiaro che se leghi una persona al letto e sai benissimo che si muove, la devi controllare, se non la controlli e te la trovi alle 2 di notte morta perché si è strozzata con le cinghie del letto, vuol dire che nessuno è passato a controllarla. Non può morirti una donna così, senza che te ne accorgi…”, commenta Scialanca sottolineando la correlazione tra la disgrazia e la mancanza di personale, che non è semplice da riscontrare in tempi di pandemia, dato che dipendenti a parte praticamente nessuno, anche dopo la riapertura di maggio, può mettere piede nelle aree interne delle strutture dove ancora oggi si viene generalmente ammessi in giardino o in aree-parlatorio dedicate alle visite specialistiche e a quelle dei parenti.

Personale ai limiti della sopravvivenza – “Difficilmente nelle Rsa entrano degli esterni, ma dopo il Covid la tensione c’è in quasi tutte le strutture, se ne salva qualcuna, perché probabilmente aveva avuto maggiore attenzione al personale prima della pandemia. Ed è un momento sicuramente difficile perché il personale non si trova, perché abbiamo un problema di formazione e perché i minutaggi (la quantità minima di assistenza per ospite che ogni regione fissa per le sue strutture, ndr) vengono raramente rispettati – aggiunge Milena Speranza, responsabile ligure della funzione pubblica della Uil –. Abbiamo fatto segnalazioni a proposito di Rsa in cui l’infermiere riesce a fare anche 15 ore di fila: un tempo nel quale l’attenzione ovviamente può cadere rispetto a quello che accadrebbe nelle 8 ore canoniche”.

Quanto a quello che succede all’interno, “noi raccogliamo il malessere del personale che ci lavora e dice di non avere sufficiente tempo per assistere le persone nel modo in cui dovrebbe”, racconta Speranza. E quindi va a monte del problema: “Ci vorrebbe una revisione dei minutaggi dell’assistenza all’ospite: noi come Uil vorremmo riaprire una discussione con Alisa e con la Regione sui minutaggi che secondo noi non sono congrui con quello che dovrebbe essere veramente l’assistenza e il dedicarsi alla persona, sono ormai inadeguati al sistema e al momento. E sono comunque dei minimi assistenziali, ma nessuno va oltre: una struttura in piano magari nel minimo assistenziale ci sta, ma se è su quattro piani deve cambiare i minutaggi, due persone su un piano possono fare determinate cose, ma se le devo far lavorare su due piani la cosa cambia”.

E intanto chi controlla come vanno le cose con il personale all’osso, quelli che pure potevano essere ed erano un aiuto, i parenti e i visitatori, sono di fatto ancora chiusi fuori? “Non abbiamo percezione vera e propria di quello che succede dentro: alcune strutture sono sindacalizzate, altre non lo sono, quindi non ci arrivano le notizie”, spiega ancora Speranza, dicendosi certa del fatto che “i controlli li facciano, ma magari dovrebbero essere più strutturati nella verifica della presenza di oss e infermieri, della turnazione, delle ore effettivamente erogate“.

Il Piemonte e la piaga della contenzione – Tanto più che quanto accaduto a Sanremo, non è un caso isolato e non riguarda solo la Liguria. Nel vicino Piemonte, per esempio, nel marzo del 2020 due ospiti di una Rsa di Ovada sono morti per aver ingerito del detergente per le mani pensando che fosse acqua. Un incidente che è stato reso noto soltanto pochi mesi fa e che rientra nel novero delle disgrazie che si potrebbero prevenire. A fine marzo di quest’anno, invece, la procura di Torino ha aperto un fascicolo sul caso della Rsa Sant’Anna di Pianezza che è stata denunciata da una signora che è anche medico di famiglia, perché il suocero, ospite della struttura che ha rette mensili da 3200 euro, era legato al letto senza l’autorizzazione della famiglia senza apparenti ragioni sanitarie e non era stato fatto alzare per una settimana. La giustificazione in prima battuta era stata la carenza di personale per riuscire a seguire tutti gli ospiti. “Per fortuna – aveva spiegato la dottoressa ai carabinieri, secondo quanto riportato dalla Stampa – ci sono anche posti in cui agli anziani viene fornita adeguata assistenza. Si tratta di persone che hanno bisogno di assistenza continua. Da quando c’è il Covid, però, a nessuno è permesso entrare nelle case di riposo e gli anziani non hanno modo di comunicare all’esterno il loro disagio”.

Il tema della contenzione è una nota particolarmente dolente per il Piemonte, dove all’inizio dell’estate il procuratore di Torino Vincenzo Pacileo ha aperto un fascicolo per fare luce su quanto emerso dalla relazione annuale dell’ormai ex difensore civico regionale, Augusto Fierro, che lo scorso aprile ha denunciato come da una sua indagine svolta nel 2019 sia “risultata evidente la prassi di usare strumenti di contenzione meccanica sui pazienti delle Rsa. Un fatto che appare in contrasto con la legge”. Dietro a questa pratica, commentava a fine giugno l’edizione torinese del Corsera, “ci sarebbe soprattutto la carenza di personale e quindi l’impossibilità, in particolare in certi orari, di assistere i pazienti. E proprio a fronte di questa «giustificazione» serpeggia il timore che nell’anno del Covid la pratica sia stata usata ben più frequentemente”.

Il controllo sociale non c’è più e neppure la forza lavoro gratuita – D’altro canto il fatto che familiari, assistenti sociali e spirituali, volontari e visitatori in genere, causa Covid, siano fuori dalla porta o ammessi solo in spazi appositi, non solo fa mancare una forma importante di aiuto al personale e di controllo sociale, ma anche di stimolo a fare meglio e di più. O di deterrente a non fare scelte azzardate. Così nessuno che non rischi il posto di lavoro ha modo di vedere con i propri occhi, come invece succedeva prima, cosa mangiano, con cosa vengono lavati e soprattutto da quante ora sta lavorando chi assiste gli anziani. O ancora, più semplicemente, che tipo di vita facciano, come passano il tempo, mentre chi li assiste è travolto da una mole di incombenze che non ha paragoni con il 2019.

La prevenzione è importante e le regole vanno rispettate, tanto più quando si tratta di una categoria così fragile come gli anziani. Ma chi ha dato ai direttori sanitari ampia facoltà di chiudere le porte delle strutture, mettendo sopra le loro spalle ogni responsabilità, non ha pensato a delle misure per controbilanciare non solo l’aumentato carico di lavoro, ma anche l’inevitabile necessità di trasparenza e vigilanza che si è venuta a creare. In realtà le normative e le circolari ministeriali danno a regioni e comuni molteplici possibilità di intervenire, suggerendo addirittura di coinvolgere volontari e familiari nella gestione delle visite parentali, ma anche invitando le regioni a favorire l’accesso di assistenti spirituali, sociali, figure di supporto psicologico per gli ospiti, etc.

Poi però ognuno fa quel che vuole. A Genova, per esempio, ancora oggi il messo comunale non ha il permesso del comune di recarsi nelle Rsa per il rinnovo dei documenti degli ospiti e, nonostante anche per la legge le strutture siano aperte, chi ha la sfortuna di dimorare in una Rsa pur pagando le tasse come gli altri, non ha diritto neanche alla dignità di una carta d’identità nuova. D’altro canto il sindaco Marco Bucci non aveva aperto bocca e men che meno mosso un dito per le Rsa nel suo comune neanche durante la prima ondata nella primavera del 2020, perché le strutture “sono di pertinenza regionale e il Comune non è intervenuto”, come spiegò il portavoce del sindaco interpellato da ilfattoquotidiano.it in merito a eventuali iniziative per tutelare i genovesi residenti nelle strutture del capoluogo ligure di cui, era il 4 aprile 2020, si sapeva poco o niente.

Mancano le risorse anche per la vigilanza – Quanto alla Regione Liguria, il fatto che l’assessore alla Salute e il governatore Giovanni Toti siano la stessa persona non aiuta. L’argomento Rsa non viene quasi trattato politicamente ed è in toto affidato a un eminente geriatra in pensione, Ernesto Palummeri, che presta servizio gratuitamente presso Alisa, di cui è consulente da prima della pandemia. Il professore è coautore di un libro (Rsa, oltre la pandemia edito da Maggioli) uscito quest’anno, nel quale si sostiene tra il resto che “le Rsa oggi in Italia hanno un rapporto tra personale d’assistenza e ricoverati, che non è diverso da quello tra le guardie carcerarie e i detenuti”, come ha sottolineato il curatore del volume, Antonio Guaita, in occasione della presentazione genovese del libro, commentando come sia “impossibile andare avanti con numeri di questo tipo”.

Palummeri spiega a ilfattoquotidiano.it come le ispezioni nelle Rsa vengano eseguite ordinariamente una o due volte l’anno da un’equipe composta da un medico, un igienista e un assistente sociale per verificare “tutta una serie di elementi che definiscono il rispetto degli standard assistenziali e poi a campione si visitano dei pazienti per vedere se hanno una condizione clinico-assistenziale corretta, poi ci sono i farmaci, etc”. Poi in caso di segnalazioni, si attivano delle vigilanze straordinarie. “Non abbiamo aumentato le ispezioni durante la pandemia perché non ci sono le risorse umane, anzi si è fatto molta fatica a garantire le vigilanze periodiche. Anche perché il personale è adibito anche ad altre mansioni. Di contro sono state fatte una serie di vigilanze straordinarie originate da eventi di vario tipo: segnalazioni di parenti, dati anomali, positività strane, tutti elementi che portano all’esecuzione di ispezioni”, continua precisando che “là dove vengono segnalate irregolarità noi provvediamo a sanzionare fin dove la legge lo consente. Il sistema per quanto ha potuto è intervenuto e per quanto riguarda pazienti che muoiono per incuria, la Liguria non registra dati anomali rispetto alle altre regioni”.

Anche in Trentino c’è una verifica annuale da parte della commissione di vigilanza dell’Azienda provinciale per i servizi sanitari, ma in questa fase non è stata fatta a tutti. “Viene eseguita a sorpresa in caso di segnalazioni di criticità, che possono essere relative agli standard di personale con conseguenti trascuratezze verso i residenti configurabili come abusi o maltrattamenti”, spiegano da Upipa, l’Unione provinciale istituzioni per l’assistenza. Aggiungendo come “poi i Nas ci fanno visita a Ferragosto e a Natale con controlli abbastanza approfonditi: accedono ai reparti, verificano le condizioni di igiene degli ospiti, come sono vestiti, se sono a letto, come vengono trattati, verificano le condizioni della cucina e dei farmaci, non si limitano a controllare solo la documentazione”, sottolinea l’associazione che fa a sua volta delle verifiche incrociate sulla qualità.

“Le due criticità che troviamo sono da una parte il forte stress del personale che è al limite del dimensionamento: siamo sempre stati il 20% sopra gli standard regionali, invece adesso siamo al filo, alcuni anche leggermente sotto. E abbiamo degli standard alti: 1200 minuti di assistenza media settimanale per posto letto, dove lo standard della Lombardia è di 950 – aggiunge Upipa – L’altra criticità riguarda l’isolamento e la compartimentazione: dove gli spazi sono ampi e i percorsi sono ben studiati, gli anziani non hanno grosse penalizzazioni per visite, attività, etc, in altre strutture dove gli spazi sono più sacrificati i movimenti e le possibilità sono molto più limitati. Certo non è come nelle fasi più acute della pandemia in cui tutti vivevano in stanza senza muoversi, però …”.

“Ci lascino usare le telecamere: se uno non ha niente da nascondere che problema ha a essere ripreso?” – “Nelle regioni in cui siamo più presenti, come Friuli, Marche e Toscana, abbiamo ricevuto senz’altro più visite tra Nas e Asl e so che è stato così per tutti. Sono un grande sostenitore dell’uso delle telecamere, ma purtroppo non si riesce ad attuare: c’è il Covid e dove c’è poca presenza c’è la malagestione, se ci facessero mettere delle telecamere dappertutto risolveremmo tanti problemi – è la proposta del triestino Gabriele Ritossa, amministratore delegato del gruppo Zaffiro che ha fondato negli anni novanta -. Ho sempre predicato che per evitare gli eccessi che vediamo ogni tanto in tv, il deterrente minimo è che chi può commetterli sappia di essere filmato: se uno non ha niente da nascondere che problema ha a essere ripreso?”, conclude l’imprenditore che oggi gestisce una trentina di Rsa in tutta Italia.

Verso l’apertura delle aree di degenza? Chi ce la fa e chi no – Intanto una norma appena approvata dal Parlamento con il primo decreto Green Pass ha previsto l’ingresso quotidiano dei parenti nelle Rsa, con il diritto di assistere le persone non autosufficienti. Quindi entrando anche nelle aree di degenza. La Regione Lombardia, nel recepirla, sottolinea “la necessità di adoperarsi per garantire la più ampia disponibilità all’entrata dei visitatori/familiari come previsto dall’aggiornamento normativo”. Non solo. Cercando di uscire dalla sfera dell’opinabile, la Lombardia – che pure ha appena rivisto le tariffe riconosciute alle Rsa – chiede alle strutture che “eventuali organizzazioni operative che si discostano dal disposto nazionale, devono essere opportunamente motivate e comunicate all’Ats”.

Più prosaicamente da Genova il professor Palummeri rileva invece come “esistono strutture che riescono a soddisfare le richieste, strutture che hanno spazi e strutture che non li hanno. Mi auguro che si intervenga presto affinché tutte si adeguino e che qualcuno abbia il coraggio di dire che chi non lo fa deve chiudere. Se il governo ce l’ha lo dimostri: si fanno tante belle parole e poi di fatto non cambia assolutamente nulla, perché è bello dire che vogliamo che i parenti vedano gli ospiti tutti i giorni, ma se una struttura è impossibilitata fisicamente a farlo … non è che si può trasformare in un bazar: ci vuole personale, ci vogliono adeguamenti alle tariffe e in molte regioni compresa la nostra ci sono tariffe assolutamente insufficienti a coprire tutti i servizi che si vorrebbero. Quindi Roma può dichiarare quello che vuole, però le strutture per come sono costruite molto spesso non ce la fanno: bisognerebbe avere il coraggio di chiudere chi non è adeguato, ma questo coraggio non c’è”.

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