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Un’ultima osservazione, dettata più che altro dal confronto della nostra stampa con quella estera: Corriere della Sera, Repubblica e Stampa sono i quotidiani che dedicano tantissimo spazio al caso Afghanistan e all’emergenza umanitaria, molto più di quanto non sia fatto in Francia, Germania, Spagna e Inghilterra. Il che mi suggerisce una cosa: da noi l’Afghanistan, con i sanguinari talebani che ormai impersonificano il Nuovo Nemico dell’Occidente e dei suoi valori, sta diventando a livello mediatico uno strumento di distrazione di massa, mentre tanto puntiglioso ed esaustivo sforzo giornalistico non viene prodigato riguardo, per esempio, alle operazioni finanziarie del governo Draghi connesse al Pnrr, il Piano nazionale di ripresa e resilienza, su cui nessuno indaga a fondo per capirne le effettive destinazioni.

Non solo: sappiamo quanti soldi sono stati spesi sinora (e come) del Recovery Plan? Tornando indietro nel tempo – come si sta facendo per i talebani, tanto per rimanere in tema – sono stati analizzati gli investimenti governativi degli ultimi vent’anni, per capire se i fondi messi a disposizione dei vari progetti sono stati impiegati oppure sono rimasti nel limbo? Un’inchiesta così non l’abbiamo mai letta… in compenso, sorge il sospetto che aver discusso con Matteo Salvini significa averlo probabilmente rassicurato sulle eventuali destinazioni dei miliardi Ue verso le regioni in cui la Lega spadroneggia, ossia Lombardia, Veneto e Piemonte.

In questo senso, montare politicamente la panna afgana coi dibattiti sulla “disfatta” dell’Occidente – argomento già in auge nel Sessantotto – sui limiti della democrazia o sull’impossibilità di salvaguardare i diritti umani calpestati brutalmente da regimi islamici radicali vuol dire impegnare su questi fronti l’opinione pubblica, giustamente scossa e sdegnata dall’escalation caotica ed esiziale del ritiro da Kabul, con l’Onu che denuncia “esecuzioni sommarie di civili e soldati afgani”, con le raccapriccianti testimonianze degli scampati e dei fortunati che sono riusciti a rifugiarsi in Occidente, con i diktat dell’Emirato che impone alle donne di restarsene a casa.

Purtroppo, il disimpegno (mal gestito) degli Stati Uniti risponde a un’esigenza ben precisa: abbandonare un’area critica, devastata da conflittualità permanenti e ibride, un’area cioè ormai compromessa da interessi geostrategici convergenti (ma anche divergenti, a lungo termine) che non giovano a Washington, perché marginali ai suoi programmi protezionisti: di fatto, la politica estera della Casa Bianca è un ritorno al realismo. Come ha dimostrato la mossa di Joe Biden che non ha consultato gli alleati della Coalizione per decidere il ritiro definitivo dall’Afghanistan, il neoisolazionismo Usa non concerne il continente americano, né l’Asia orientale, ma principalmente l’Europa di cui gli americani diffidano.

Sul terreno afgano, infatti, si incontrano e scontrano le pressioni di Cina e Russia, di India e Pakistan, di Iran e Turchia e anche del Golfo Persico. Un puzzle complicato e rischioso, poiché su Kabul convergono indirettamente poteri lontani o d’oltre confine, una situazione densa di azzardi: in primis, quelli dei talebani che sperano di ricavarne vantaggi economici, assecondando di volta in volta ognuna delle potenze regionali. L’India finanzia Ahmad Massoud, il figlio del leggendario comandante Ahmad Shah Massoud, che negli anni Novanta guidò la resistenza contro i talebani, assassinato due giorni prima dell’11 settembre 2001. Ahmad si è asserragliato nella valle in cui è “signore”, “il Panshir è l’unica provincia che resiste, l’intero Paese è caduto, ma noi teniamo duro, così come abbiamo sconfitto i sovietici negli anni ‘80 […] sono disposto a perdonare il sangue di mio padre per portare pace, sicurezza e stabilità nel Paese”, ha detto pochi giorni fa.

L’Iran appoggia i talebani, per ovvie contiguità nel modello di “governance” basato sulla sharia, e poi perché Kabul non osserverà le sanzioni Usa. La Turchia vuole estendere la sua influenza bypassando l’Iran (tramite i Paesi ex repubbliche sovietiche). La Cina persegue il suo disegno di penetrazione economica ed egemonica, sfruttando il suo immenso potenziale finanziario. Il Pakistan si illude di controllare i talebani, in realtà vuole impedire all’India di allargare la sua influenza. Infine c’è l’Eurasia, il grande disegno di Putin, chimera dei sogni imperialistici russi che riprende vigore proprio grazie allo slittamento dei rapporti di forza mondiali e al ritiro statunitense. Come Pechino, Mosca ha nei cassetti grandi progetti: vuole sviluppare rotte continentali per facilitare gli scambi regionali e soprattutto per esportare le materie prime ed energetiche di cui è leader mondiale (come si evince dal rapporto Strategia 2030).

Ma Putin dovrà manovrare cautamente, per non urtarsi coi cinesi. E coi turchi. Dalla fine della guerra fredda, la Turchia ha lanciato a sua volta “l’euroasismo” (Avransyacilik, in turco) che presuppone l’esistenza di un terzo continente tra l’Oriente e l’Occidente, tra le culture turche, russe e cinesi. Ankara vuole riconquistare il ruolo che aveva avuto con l’Impero Ottomano, e ha elaborato una soluzione alternativa alla mondializzazione. Per l’attuale Turchia, gli immensi spazi dell’Asia centrale giocano il ruolo del paese natale, la distesa infinita delle steppe è il luogo in cui si è manifestato il genio turco. Nelle mappe che indicano dove si trovano le popolazioni turcofone, ci sono anche lembi d’Afghanistan (al nord)…

Potenzialmente, dunque, una polveriera. Prima o poi scoppierà qualche nuova crisi regionale, in cui gli Stati Uniti non vogliono farsi coinvolgere. E l’Europa? Procede in ordine sparso. Si lascia minacciare da Ankara che le sventola lo spauracchio di nuove ondate migratorie. Teme il ritorno del terrorismo islamico, foraggiato da chi ha aiutato i talebani a riprendersi il potere a Kabul. Prevale a est il concetto dell’Europa-Fortezza. Le nuove tensioni internazionali e il disorientamento di Bruxelles circa la situazione in Afghanistan dopo che gli Stati Uniti hanno concordato unilateralmente coi talebani il ritiro, favorirà i regimi populisti e nazionalisti.

A tanti, inoltre, fa comodo che si evochi una nuova Guerra fredda: che significa riarmo, per la gioia degli apparati militari-industriali (da noi c’è già fermento: la Fincantieri vuole acquisire la Oto-Melara, per rafforzare il ruolo già preminente a livello mondiale nella costruzione di grandi navi militari e realizzare una sinergia d’eccellenza nel segmento sistemistico).

Il ritiro Usa, in ultima analisi, favorirà il mercato militare in cui gli americani sono i più forti del mondo. Con la pace non si fanno affari, ma con la paura della guerra e del terrorismo, invece il business militare fibrilla. Se poi si aggiunge il conflitto cyberhacker, abbiamo un quadro completo degli asset favorevoli a Washington e ai suoi satelliti (fra cui noi).

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