Jasmine* è nata e vissuta a Jaipur, in India, in una baraccopoli difficile, violenta, con una gerarchia patriarcale rigida. Negli anni l’abbiamo seguita, vista crescere, l’abbiamo accompagnata nel ciclo scolastico dalle elementari fino all’università. Adesso è nei suoi vent’anni ed è diventata capofamiglia, mantiene 10 tra bambine, donne e un bambino con difficoltà di apprendimento. Ha un lavoro nel suo settore ed è una giovane donna indipendente. E questo non a tutti piace.

Pochi giorni fa è stata aggredita con l’acido, con lo scopo di costringerla a un matrimonio forzato con un uomo che non la rispetta e che ha problemi di alcolismo. Con un gruppo di amici di Vivere con Lentezza ci siamo attivati subito, siamo riusciti a nasconderla presso una famiglia locale. Ora sta bene, il suo lavoro per ora è garantito, sosteniamo l’affitto della stanza che occupa e stiamo cercando di capire come occuparci della famiglia rimasta nello slum.

La storia di Jasmine non è molto dissimile da quella di Kahla* e di Ungai*, tre delle ragazze che stanno seguendo corsi scolastici o universitari (a proposito: Kahla ha superato il terzo anno, pur lavorando, proprio in questi giorni). Con loro non abbiamo mai affrontato il tema di come reagire di fronte alla vessazione di un matrimonio forzato, se non in linea generale dicendo che dovevano sforzarsi di proseguire gli studi e lavorare per diventare padrone del proprio futuro.

Fatto sta che tutte e tre in modi diversi (ne ho scritto in precedenti occasioni su questo blog) si sono ribellate: credo sia merito del fatto che andando a scuola e lavorando frequentano persone diverse, non allineate con i canoni più retrivi della comunità a cui appartengono. La prima è stata Kahla, che ha deciso di sposare il ragazzo che le piaceva: espulsa e picchiata, assistita all’epoca, adesso vive con suo marito in un mini appartamento dignitoso e la coppia è quasi indipendente economicamente. Più complesso è il caso di Ungai, che tra pochi giorni dovrebbe partorire e che ha deciso di sposare un ragazzo appartenente a una religione diversa e a un gruppo considerato inferiore alla sua noncasta (sono tutti Dahlit-Paria), entrambi espulsi con botte dalla bidonville; quando Ungai avrà partorito riprenderà gli studi e il lavoro. Per ora assieme a suo marito, che lavora, riescono a sbarcare il lunario seppur sostenuti da Vivere con lentezza.

Dei tre casi, quello di Jasmine rappresenta un salto di qualità nella violenza della risposta, e anche questo forse non è un caso, visto che le scelte di ribellione sono almeno tre in poco tempo e che quindi anche un tentativo di omicidio, se non di lesioni gravissime, può rappresentare un deterrente di fronte a future insubordinazioni. Ho conosciuto Gino Strada, negli anni della mia gioventù, e recentemente ho rivisto una sua intervista in cui diceva: “Smettetela di cianciare sul burqa, e date alle donne afghane un lavoro e un’educazione, e vedrete che la situazione cambierà”.

Delle nostre ragazze solo Ungai era costretta dalla famiglia, che si sta radicalizzando sempre di più, a portarlo, ma questo non le ha impedito di rifiutare (con dure conseguenze) il matrimonio imposto e di sposare chi voleva. La sorte di Jasmine non è ancora chiara, ma continuiamo a starle vicino e a sostenerla economicamente, anche grazie a un ragazzo italiano che ha deciso di restare a Jaipur e che le dedica del tempo. Poter disporre di un’istruzione e di un lavoro e una catena di amici non risolve tutto, ma aiuta molto.

*nomi di fantasia, scelti per proteggere la loro identità e la sicurezza delle loro famiglie

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