Il pellegrinaggio partiva da Tavullia e arrivava fino alla vetrina del negozio Champion di Pesaro. Una ventina di chilometri da percorrere in corriera. Quarantacinque minuti ad andare. Altrettanti a tornare. Ancora e ancora e ancora. Sotto il sole bollente. Sotto la pioggia battente. Il gruppo partiva a cadenze regolari. Poi si ammassava davanti a quel vetro fino ad appannarlo con il fiato. L’ostensione era uno spettacolo sufficiente. Bastava ammirare l’oggetto, pensare di possederlo era qualcosa di ancora troppo grande. Arriverà il giorno, si ripetevano. Fino a quando il giorno non è arrivato davvero. L’Aprilia SR è molto più di uno scooter dalla linea sportiva. È un simbolo. È una promessa di libertà. È il sogno di ogni ragazzino in quel 1992. Valentino deve aspettare ancora un poco. Quando compie quattordici anni lo aspetta un altro viaggio. Stavolta non più in corriera, ma su un furgone. Suo padre è alla guida, gli occhi fissi sulla strada. Vale invece è impaziente, ha un solo pensiero che vortica nella testa. Stavolta deve arrivare fino a San Marino. Perché ci sono stati troppi ordini. E lo scooter non si trova da nessun’altra parte.

È in quel pomeriggio come tanti che Rossi corona uno suoi sogni e inizia il suo sogno, rigorosamente al singolare. Trasformare quell’SR in una moto vera e portarla sul tetto del mondo. Quello scooter non è il suo primo mezzo, ma è quello che più ha desiderato. D’altra parte la scintilla era scoccata quasi subito. Valentino aveva imparato a camminare. E quasi contemporaneamente aveva imparato a guidare. Tutto sotto la supervisione del padre Graziano. Lui era stato un pilota, fra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta. In 250, in 500. Una vita interamente dedicata ai motori. E alla famiglia. Valentino inizia a prendere confidenza con le automobili e i kart di plastica. Graziano lo porta sul piazzale della Berloni, poi lega la macchinina del figlio dietro al suo motorino. E preme leggermente sul gas. Vale apprende, subito. A due anni e mezzo arriva il primo grande regalo. Un motorino con le rotelle. Qualcuno pensa che sia troppo piccolo. Lo sottovaluta. La storia va avanti giusto qualche settimana. Poi Valentino è pronto a toglierle. Due o quattro ruote non fa molta differenza. Almeno all’inizio: “A nove anni ebbe la licenza per i go kart – ha raccontato il padre Graziano a Il Resto del Carlino – Vinse qualche gara, ma poi arrivarono quelli grossi che costavano un sacco di soldi. Quello era uno sport da ricchi”. La soluzione arriva direttamente dal Giappone. E si chiama minimoto.

Valentino si appassiona, comincia a girare. E va sempre più forte. Il traguardo però è sempre lo stesso. Stavolta non è una questione di chilometri, ma di anni. “Aspettavo di avere quattordici anni da quando ne avevo 12”, dirà Valentino. Ed è vero. Le prime immagini lo ritraggono mentre accelera, con una tartaruga ninja attaccata al casco. Gliel’ha comprata sua mamma alla Coop di Pesaro nel 1989. Quel peluche diventa il gancio con l’infanzia di un ragazzo che sta crescendo velocemente. Giorno dopo giorno, curva dopo curva. A completare la sua cosmogonia c’è un mezzo insolito, qualcosa di diametralmente opposto a una moto. È un vecchio apecar arancione del 1979. Rossi lo usa per andare a scuola ed evitare di dover prendere l’autobus. Vuol dire minuti di sonno in più. Vuol dire non dover dipendere da nessuno. Il ragazzo pigia il gas. Il trabiccolo su tre ruote sbuffa, poi accelera. Nessuno però si mette a ridere. Anzi, l’apecar diventa moda. Diventa codice di un’intera generazione di ragazzi nati in quella provincia.

Il 1992 non vuol dire solo SR. A novembre riceve in prestito un’Aprilia Futura 125 da Maurizio Pagano. Valentino fa un giro in pista e convince tutti. Gareggerà nel torneo Sport Production a bordo di una Cagiva Mito 125. È l’incipit di un romanzo straordinario. Nel 1996, a 17 anni, fa il suo esordio nel Mondiale 125. Con l’Aprilia. Norifumi Abe è il santino da tenere sulla mensola della camera da letto. Talento puro e guida aggressiva, è lui a forgiare l’immaginario motociclistico di Valentino. È un pilota che travalica il concetto di vittoria, perché è in grado di creare qualcosa di più prezioso: un proprio stile. Valentino lo osserva, lo imita. Gli rende anche omaggio con quel soprannome curioso: Rossifumi. Il primo podio arriva in Austria. Nella gara successiva, a Brno, mette tutti dietro. È l’acconto di quello che succederà nell’annata successiva. Rossi vince 11 gare su 15. Fanno 321 punti. Un’enormità. È lì che diventa “Patrimonio dell’italianità come tutti quelli che vincono qualcosa”, come scrive Marco Ciriello, autore di Valentino Rossi, il tiranno gentile, uscito per 66thand2nd. Il salto in 250 è automatico. Il copione sempre lo stesso. Vale studia attentamente. Un anno di ambientamento, poi nella seconda stagione diventa di nuovo campione del mondo. La 500 è il suo destino. Tocca a lui prendere quello che papà Graziano ha solo sfiorato. In sella alla sua Honda deve aspettare otto GP. Mette insieme tre podi. E qualche dubbio. Poi si vola in Inghilterra. Valentino è imprendibile. Vince la sua prima corsa nella classe principale. È una gara speciale. Per lui. E per Graziano. “Ho capito che era un grande quando ha vinto il suo primo GP a Donington nella 500. Era il 2000”. Qualcuno gli fa notare che prima di quella corsa suo figlio aveva già vinto due mondiali. “È vero – ammette nell’intervista – ma per me i veri grandi campioni sono quelli che vincono in 500”. La stagione finisce proprio come si era conclusa quella di esordio nella 250. Rossi è secondo. Ma il successo finale non è una promessa, ma una certezza Nel 2001 vince la gara d’esordio a Osaka. Valentino inizia a duellare con Capirossi. Ma la vera grande rivalità è quella con Max Biaggi.

Tutto risale al 1998. Il pilota romano, otto anni più grande, avrebbe detto a Rossi: “Prima di parlare con me, sciacquati la bocca”. È una frase che il numero 46 si tatua nella memoria. I due iniziano a punzecchiarsi in continuazione. Quando Biaggi si guadagna le copertine per un incontro con Naomi Campbell, Rossi prima vince al Mugello e poi carica sulla moto una bambola gonfiabile che assomigliava a Claudia Schiffer. Tutti sono convinti che il Mondiale del 2001 sia un affare personale di Biaggi. Tanto che finisce per convincersene anche lui. Fino a quando Rossi non irrompe sulla scena. Max non sopporta Vale. I suoi modi gli danno fastidio. Il pesarese festeggia le sue vittorie in un modo che per il romano ricorda le pagliacciate. A Osaka Biaggi spinge Rossi. A 220 all’ora. È il segno di un nervosismo latente che deflagra cinque GP più tardi, a Barcellona. Vale parte in pole, ma perde subito 9 posizioni. Le recupera tutte, infila Biaggi. È primo. Poi Biaggi lo supera di nuovo. Sembra tutto perso. Ma due giri più tardi Vale si riprende la gara. Ai piedi del podio va in scena una lite surreale. Biaggi urta Badioli, il manager di Rossi, facendogli cadere gli occhiali. Badioli spinge Biaggi, che risponde. Valentino vede tutto e urla: “Che cazzo fai, idiota!”. I due vengono a contatto. Un membro dell’organizzazione prova a separarlo ma scivola per terra. Dopo qualche minuto i due salgono sul podio. Valentino ha un segno sotto l’occhio destro. Biaggi ha un segno sotto entrambi gli occhi. “Sono stati gli insetti”, dice Max in conferenza stampa. Si va avanti a oltranza. “Il problema è che per salire sulla scala a chiocciola c’è poco spazio. Forse Biaggi era un po’ nervoso per aver perso. Ci siamo un po’ spintonati, ma niente di più”, dice Vale. “Sono cose che non dovrebbero succedere. A causare tutto è stato il manager di Rossi, che ha fatto una cosa sbagliata nel momento sbagliato. Meglio tralasciare”, risponde Max. È in quel momento che tutto appare chiaro. Chi si frappone fra Rossi e la vittoria è destinato a essere fagocitato.

Succede a tutti. Uno dopo l’altro. Il dottore inizia la sua tirannia. Vince il Mondiale. E poi altri quattro. Uno dietro l’altro. Come se fosse la cosa più naturale del mondo. Valentino diventa un fenomeno internazionale portandosi sempre dietro al provincia. L’ha elevata a sistema, ne ha fatto il suo habitus. E la sua forza. Nel 2005 e nel 2007 il Dottore abdica. Vince l’altro suo arci-rivale, Casay Stoner, prima di lasciare la gloria effimera a Nicky Hayden. La festa degli altri dura poco. Valentino torna a vincere. Per due anni di seguito. Poi nel 2011 saluta la Yamaha e sale in sella alla Ducati. Le cose non vanno nel verso sperato. Il titolo si allontana. Sempre di più. La morte di Simoncelli è una ferita che non riesce a rimarginarsi. Fa invecchiare Valentino improvvisamente. Fra il 2014 e il 2016 chiude tre volte al secondo posto. Poi inizia il declino. Lento. Ma inesorabile. Lui che era abituato a superare, a prendersi gioco degli altri, ora lotta per posizioni meno nobili. La sua ultima vittoria è datata 25 giugno 2017, ad Assen. Poi più niente.

A metà del 2020 iniziano i problemi. Ritiri. Infortuni. Due dodicesimi posti. Quest’anno va ancora peggio. Appena 17 punti messi insieme in una mezza stagione. Vederlo gironzolare lì, al diciannovesimo posto della classifica, genera sentimenti contrastanti. Per qualcuno si tratta di semplice malinconia, frutto di un presente sbiadito che non fa pendant con un passato a tinte brillanti. In altri, invece, suscita qualcosa di molto vicino all’ammirazione. Eppure in qualche modo, a 42 anni, Valentino Rossi è riuscito a ridefinire il concetto di vittoria. E l’ha fatto mancandola per stagioni intere. La lezione è chiara: il successo non coincide più con la posizione finale, ma con la presenza, con il restare abbarbicato alla sua moto mentre gli altri, più giovani e a volte anche meno talentuosi, gli stanno davanti, lo sorpassano come se fosse un pilota qualsiasi. Un’esistenza che diventa piena solo se sorretta dall’idea di “resistenza”. Fino a oggi. Fino a quando un uomo che è stato capace di diventare più grande del suo stesso sport ha annunciato il suo ritiro. Non oggi, ma a fine stagione. Ci sono ancora nove gare da correre. Ci sono ancora applausi da prendere, emozioni da regalare. D’altra parte il suo biografo l’aveva detto giusto un paio di mesi fa a ilfattoquotidiano.it: “Gira a vuoto per stancare la sua ferita. Quella che è stata aperta dalla morte di Marco Simoncelli. Con Sic se n’è andato il suo erede, quindi Valentino è costretto a essere ancora imperatore“. E lo resterà anche una volta sceso dalla moto.

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