Nella splendida cornice della Rocca di Populonia, il 10 luglio è stato organizzato un intenso incontro dal titolo “Benessere o non essere”. L’idea è nata dal desiderio mio e di Erika Bianchi, storica e scrittrice, di incontrarci fuori dal mondo virtuale per pensare finalmente in presenza ai nodi emersi con la pandemia. L’evento è stato promosso dall’archeologa e direttrice del museo di Populonia collezione Gasparri Carolina Megale che ci ha ospitato in un posto magico e carico di storia e ci ha regalato l’occasione per uno scambio di saperi.

Ha partecipato all’incontro la grande Ginevra Bompiani, che ci ha incantato con le sue immagini e invito alla resistenza, e ci ha posto domande di senso radicali come questa: “L’anno scorso ragazzi e ragazze non sono andati a scuola. Quest’anno non potranno andare al cinema, a un concerto o a vedere una mostra se non si fanno un vaccino che a loro non serve e può nuocere alla loro salute. Qual è il bersaglio: la gioventù o la cultura?”.

Francesca Capelli, giornalista e sociologa, è arrivata direttamente da Buenos Aires, ha cercato di interpretare i processi comunicativi dell’ultimo anno e mezzo alla luce di “Purezza e pericolo” dell’antropologa Mary Douglas. C’era anche il fotografo Gabriele Milani, autore di una delle immagini più rappresentative e virali del lungo periodo di restrizioni: la scritta #Mimanchicomeunconcerto realizzata su un cartellone pubblicitario di Livorno e poi immortalata dall’obiettivo di Francesco Luongo.

Infine lo psicoanalista Emilio Mordini, la cui energia di parola sa catturare quasi a essere a teatro. Qui il suo splendido intervento che ho l’onore di ospitare.

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Gli idioti

L’immagine della casa, del focolare domestico, del luogo che offre protezione e rifugio, non è soltanto un’immagine cara alla pubblicità ma fa parte dell’immaginario della cultura occidentale. Tutti noi, in effetti, contrapponiamo ad una vita pubblica, lavorativa, una vita che si svolge tra gli affetti più cari, in un ambiente protetto ed accogliente dove trovare una dimensione più vera e profonda.

Naturalmente sappiamo che non è sempre così, violenze efferate si possono verificare tra le mura domestiche e la vita casalinga è a volte fatta di conflitti sanguinosi e sfruttamento reciproco. Tuttavia, l’immagine ideale della vita familiare è un’immagine positiva e, nel distinguere il tempo dedicato alla vita pubblica da quello destinato alla vita privata, descriviamo spesso quest’ultima come uno spazio di calda intimità. Insomma, nella contrapposizione tra pubblico e privato, il privato sembra rivestire un valore particolare.

Si tratta di una convinzione risalente perlomeno alla Riforma protestante, riaffermata poi dalle correnti liberali inglesi del Settecento e dallo stesso Kant. In questo ambito di pensiero nasce anche il concetto di privacy e la definizione di desco familiare come spazio inviolabile dallo Stato. Piano piano, l’idea di privato diventa quasi tutt’uno con quella di dignità umana e oggi il diritto alla privacy è considerato uno dei diritti fondamentali.

L’importanza della sfera privata è stata ulteriormente esaltata dall’epidemia di Covid. La casa è diventata non soltanto un luogo dove ritrovare la vita degli affetti ma anche un rifugio, il castello ben protetto entro cui rinchiudersi per sfuggire all’epidemia. La vita domestica ha assunto in sé tutta una serie di attività che erano tipiche della vita pubblica: la scuola, il lavoro, gli acquisti di ogni tipo, la ristorazione (grazie al delivery), lo svago (se pensi a Netflix), la vita politica (con i social), persino la vita sentimentale (le piattaforme video).

Tutte queste attività, che si svolgevano un tempo nella sfera pubblica, sono oggi entrate nella sfera privata. Probabilmente terminata l’epidemia, molte di queste occupazioni ritorneranno in parte pubbliche, tuttavia non si può evitare di pensare che si sia verificato un cambiamento radicale, con una riduzione dello spazio pubblico a favore di quello privato. C’è da aspettarsi che nel futuro la nostra vita si svolgerà ancora di più tra le mura domestiche e che il privato perderà alcuni dei suoi privilegi di riservatezza e privacy (già adesso quando partecipiamo a una videoconferenza permettiamo a sguardi indiscreti di penetrare nella nostra abitazione) e invaderà spazi sempre maggiori della nostra esistenza.

Il valore attribuito alla vita privata è abbastanza recente. Nell’antichità classica le cose stavano in modo diverso. La cultura greca conosceva la distinzione fondamentale tra privato e pubblico ma gli attribuiva un senso lontano dal nostro. Il privato, lo spazio familiare, era retto da norme e leggi profondamente differenti da quelle che regolavano la vita pubblica. Non si pensi che fosse disprezzato: era, anzi, considerato uno spazio fondamentale ma era il luogo della generazione, retto dalle leggi del sangue e dei clan.

Il pubblico era, invece, lo spazio del libero cittadino, il solo dove un essere umano potesse realizzarsi e fiorire. Certo, almeno ad Atene, il cittadino era fondamentalmente un maschio, ma il principio che la vita pubblica fosse il luogo per eccellenza dove trovare il proprio completamento valeva per tutti.

La vita pubblica era elemento essenziale anche per le donne, che erano attivamente coinvolte nei Misteri – una delle componenti essenziali della religiosità greca – e avevano numerose festività religiose dedicate solo a loro (ad esempio le Arretoforie) e gestite da confraternite di sacerdotesse. Vi erano poi le etere, che erroneamente sono a volte equiparate a prostitute, mentre erano donne colte, cha partecipavano alla vita della città, un po’ simili alle “preziose” che davano vita e animavano i salotti del Settecento. In città come Sparta, poi, le donne erano considerate cittadini a tutti gli effetti, seppure con ruoli distinti dai maschi. Insomma, quando Aristotele pronuncia la famosa definizione di “essere umano come animale politico” si riferisce a maschi e femmine e sta dicendo una cosa molto semplice: come il leone vive nei deserti e lo stambecco sui monti, l’uomo vive nella “polis” cioè nella città.

Vivere nella città è tutt’uno con l’avere una vita pubblica: significa partecipare alle assemblee politiche e al governo, ma anche frequentare la piazza, andare a teatro, presenziare alle cerimonie religiose, agli spettacoli teatrali, alla vita sportiva. Per noi è difficile immagine la sacralità profonda che aveva per un greco la vita pubblica in tutte le sue dimensioni. Appartenere ad una città era equivalente al nostro aderire ad a un credo politico-filosofico o a una religione.

I greci usavano due termini per indicare gli abitanti della città: i “polites”, cioè i cittadini nel senso di cui si è appena parlato, e gli “idiotes”, cioè coloro che vivano privatamente, all’interno delle mura domestiche, senza partecipare alla vita pubblica. Gli “idiotes” erano considerati poveri di spirito perché disinteressati alla parte più propriamente umana della vita. Il termine passò poi al latino, con il significato di persona rozza, ignorante, per giungere a noi con il senso di imbecille, stupido. Lo troviamo, ad esempio, in una delle più belle preghiere-imprecazioni prodotte dalla nostra cultura. Siamo nella quinta scena dell’atto quinto del MacBeth. Il re di Scozia ha appena appreso che la profezia delle streghe, quella che se non si fosse realizzata gli avrebbe garantito l’invincibilità, si è invece beffardamente avverata: erompe allora in una tremenda bestemmia, la più tragica che un essere umano abbia mai inventato “life is (…) a tale told by an idiot, full of sound and fury, signifying nothing”: la vita umana è una favola, piena di furia e rumore, priva di qualsiasi significato, inventata da un idiota.

Il rischio che corriamo, allora, è che questa pandemia ci faccia diventare tutti un po’ più idioti. Uscire dalla pandemia deve, dunque, significare anche ricominciare ad uscire di casa, ritornare ad essere “animali politici”.

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