Oggi ricorre l’anniversario dell’insurrezione popolare curda in Siria del luglio 2012 che, protetta dalle appena formate Unità di protezione del popolo (Ypg), da Afrin a Kobane e Derik iniziò un percorso rivoluzionario nella Siria in guerra.

Migliaia di comuni e consigli popolari furono affiancati da un governo provvisorio nel 2013, dichiarati parte di un’Autonomia democratica regolata da un contratto sociale nel 2014, quando le Ypg intervennero insieme al Pkk in soccorso degli ezidi iracheni sterminati dall’Isis. Anche per questo furono attaccate dai jihadisti a Kobane poche settimane dopo, con malcelata soddisfazione del governo turco.

La vittoria e il contrattacco contro l’Isis portarono alla liberazione di territori a maggioranza araba e all’alleanza con battaglioni popolari arabi e assiri che avrebbe preso il nome di Forze siriane democratiche. Essa stabilì una cooperazione militare con la Russia ad Afrin e con la coalizione anti-Isis a guida Usa nell’est. Il Rojava non più soltanto curdo si trasformò nel 2016 in Federazione democratica della Siria del nord promulgando un nuovo e più radicale contratto sociale, animato dall’adozione di tutte le convenzioni internazionali sui Diritti umani, dalla regolazione dell’iniziativa privata, dall’equa rappresentanza delle comunità linguistiche, dei giovani e delle donne nelle istituzioni civili, economiche e militari, dal principio del rispetto dell’equilibrio ecologico tra società e ambiente.

La guerra contro l’Isis procedette sottraendo in quei mesi ai jihadisti la strategica città di Manbij, in parallelo con la creazione di organi politici ed economici liberi ed egualitari sotto la guida del movimento confederalista e del congresso delle donne Kongra Star.

Dopo la liberazione di Raqqa nel 2017 la Russia aprì però la strada all’invasione turca di Afrin. Dopo la distruzione delle ultime sacche di resistenza di Daesh nel 2019 a Deir el-Zor – e la creazione dell’Amministrazione autonoma del nord-est, sancita da un nuovo Documento d’intesa con le comunità locali – gli Usa fecero spazio ai carri armati turchi a Tell Abyad e Serekaniye.

Da allora l’Aanes è il più grande autogoverno al mondo animato da un rifiuto della cultura capitalista, bigotta e nazionalista che imperversa in Siria e nel pianeta. Forse per questo, nonostante il ruolo regionale svolto e le sue implicazioni globali, nonostante le vittorie al prezzo di decine di migliaia di cadute e caduti in battaglia, non è mai stata riconosciuta dallo stato siriano, da altri stati (compresi quelli con cui coopera militarmente) o da organizzazioni internazionali, Onu compresa.

Una piccola rivoluzione militarmente occupata, zeppa di profughi interni e rifugio per molti profughi dall’esterno, sotto embargo economico turco-iracheno dal 2015, affronta da oltre un anno l’emergenza Covid senza che l’Onu o lo stato siriano offrano le risorse minime per il tracciamento, per le cure e per la campagna di vaccinazione. Su pressione della Russia dal luglio 2020 è chiuso l’unico passaggio di frontiera per aiuti umanitari verso l’Aanes, Al-Yarubiya.

Oggi, a nove anni dall’inizio di quella rivoluzione politica, sociale e di genere, mentre viene lentamente strangolata dallo Stato siriano e dalle potenze regionali e globali, dobbiamo chiedere con forza che ciò che è stato creato nei fatti venga riconosciuto e che anche a una popolazione che tenta di resistere fuori dalle logiche di guerra e di odio siano concessi cibo, cure, assistenza umanitaria e vaccini. Non si evita il baratro politico e morale su cui sembra affacciarsi il pianeta senza assegnare dignità e valore agli sforzi di chi ha iniziato, pur nel peggiore contesto al mondo, a cambiare le logiche di fondo di una società che nessuna catastrofe sembra distrarre dall’imperativo assoluto della concorrenza e della competizione.

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