Sarà un’emozione vedere Papa Francesco raggiungere i luoghi dell’Iraq dove cinque anni fa i profughi cristiani di Ainkawa o Dawodiye mi imploravano di portare in Europa il grido di aiuto di comunità che il fondamentalismo islamico decimava e perseguitava da anni. Vivevano e pregavano ammassati in campi profughi, case e chiese di lamiera, dopo essere stati cacciati dai loro villaggi e dalle loro case per mano dell’Isis. Molti venivano da Qaraqosh, la città cristiana sulla piana di Niniveh dove si recherà il Pontefice, allora nelle mani del “califfato”. Mi dissero che Francesco aveva da poco rinunciato a recarsi da loro per motivi di sicurezza. Si chiedevano: “Perché? A proteggerlo non sono gli uomini, ma Dio”.

Il papa insisterà, come ha fatto al suo arrivo, sulla comune radice abramitica di Ebraismo, Cristianesimo e Islam. Contrapporrà Dio e il suo messaggio alle armi usate dagli uomini. Non sarà certo lui a ricordare che Dio non è mai stato innocente nelle peggiori tragedie degli uomini, e che il dito che preme il grilletto è spesso mosso dalla convinzione di eseguire un comando divino. L’intreccio tra cielo e terra (religione, economia, politica) non toglie che, quando il boia dell’Isis “Jihadi John” puntava lame alle gole dei suoi ostaggi, ripeteva il gesto che Abramo aveva compiuto addirittura nei confronti di suo figlio. La mano del miliziano, diversamente da quella del patriarca, non fu fermata da una mano angelica ma, fuori dal racconto biblico, da migliaia di persone che hanno dato la vita per mettere fine a quell’abominio.

Il papa affermerà invece fino in fondo, com’è normale e legittimo che sia, la contrapposizione tra forza bruta delle armi e impegno nella fede. Il suo viaggio ha il merito di aprire uno squarcio su quel paese, ma ancor più decisivo potrebbe essere proprio quel messaggio se espresso fino in fondo: in Iraq avrebbe un profondo significato, ma anche un costo politico – persino per il papa. La mano armata che sottomette con la forza, infatti, non è laggiù solo quella clandestina dell’Isis tornato nell’ombra a minacciare il popolo e ora il Pontefice, ma anche quella delle istituzioni che lo ospitano e lo proteggono.

Baghdad, dove è atterrato, è porta di una Mesopotamia dove lo Stato uccide studentesse e studenti universitari, e giovani oppositori democratici, con un tasso omicida paragonabile a quello del nuovo regime del Myanmar – ma da anni. Formalmente a Baghdad o Nassiriya sono le milizie religiose filo-iraniane a premere il grilletto, ma inquadrate nelle forze armate del governo e con il silenzio connivente della polizia. Il sangue di quelle ragazze e di quei ragazzi è quindi tecnicamente anche sulle mani che il Pontefice stringe in queste ore. Da uomo di Stato deve probabilmente stringerle, ma può scegliere se parlare all’Iraq e al mondo di quegli innocenti.

In viaggio verso Qaraqosh, nel nord, e poi verso Shingal, vedrà avvicendarsi attorno a sé le scorte governative con quelle dei Peshmerga, milizia curda di destra che controlla la zona. A Shingal l’Isis sterminò e ridusse in schiavitù la minoranza ezida nell’agosto 2014: migliaia di morti e donne e bambini deportati come schiavi. I Peshmerga abbandonarono, allora, senza battere ciglio quelle comunità indifese nelle mani dei miliziani neri. Perché? Il Medio Oriente intero vorrebbe da sei anni una risposta a questa domanda. Il papa, ora, potrebbe porla.

Spingendosi lassù, nelle montuose terre del Kurdistan, il papa si troverà d’altronde in una zona che è oggi stesso teatro di guerra. I Peshmerga permettono da anni all’esercito turco loro alleato, nonostante le rimostranze di Baghdad, di bombardare le vallate della catena montuosa Zagros per combattere un movimento di liberazione anch’esso curdo, ma progressista, democratico e secolare: il Partito dei lavoratori del Kurdistan o Pkk. Il Pkk, nel 2014, difese da solo gli ezidi abbandonati dai Peshmerga e dal governo iracheno, aprendo corridoi umanitari per decine di migliaia di rifugiati. Ogni settimana le sue donne e i suoi uomini sono bombardati da Erdogan con centinaia di vittime, a un’ora d’auto dalle strade che percorrerà il papa.

Se Dio esistesse – e odiasse le armi – non sarebbe soggetto ai silenzi della diplomazia: sarebbe al di sopra di essa; e cosa vorrebbe ora dal suo servo, giunto in Iraq come “pellegrino”? Che tacesse della tirannide dei Cesari, o che parlasse alla povera gente dei loro peccati?

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