I templi laici di una domenica italiana di inizio estate distano 20 chilometri. L’erba verde di Londra come altare. Prima con Berrettini, a Wimbledon. Poi con la Nazionale di Mancini, a Wembley. Due santuari del popolo britannico che oggi parleranno (anche) italiano, che saranno oggetto di pellegrinaggio corporeo e mentale da parte di un popolo intero in una giornata che può diventare una data da memoria condivisa, pietra sulla quale fondare la nuova chiesa di una narrazione sportiva. Una giornata che è racchiusa tutta in un film di Sorrentino che diventa sentimento nazionale, in un pensiero insistente che diventa inno: this must be the place, questo deve essere il luogo. Tutto per una giornata che non prevede vie di mezzo. O santi o eretici. O vincitori o sconfitti. In una partita che si gioca anche contro il concetto di tempo, per sostituire il passato remoto con il presente.

Perché il passare degli anni ha finito con ingiallire quelle immagini. Ne ha sfumato i contorni, le ha lasciate a galleggiare in un passato che poco a poco è diventato sempre più remoto, indefinito. Così abbiamo finito con il rassegnarci, per credere che non fosse più cosa per noi. Quei fotogrammi hanno illuminato i salotti di un Paese intero grazie alla bassa definizione del tubo catodico. Con il contrasto del bianco e nero a grattare contro le retine, con il verde dell’erba che poteva essere soltanto immaginato. È il 1960 e in quell’impiastro di tonalità Nicola Pietrangeli si gioca la semifinale del torneo di Wimbledon. Perderà in 5 set contro Rod Laver. Ma la sconfitta ha un valore relativo. Perché il posto nella storia è già conquistato. Pietrangeli è stato il primo italiano ad arrivare così lontano nel torneo più antico. E resterà l’unico. Otto anni più tardi, a Roma, l’Italia affronta la Jugoslavia nella finale dell’Europeo. È una lunga sofferenza. Finisce uno a uno. Nei tempi regolamentari. Nei tempi supplementari. Per stabilire il vincitore serve una ripetizione dell’incontro. Gli jugoslavi sono stremati. E vengono travolti dai lampi di Riva e Anastasi. Sono ricordi vaghi, arcaiche gioie di un’epoca in cui l’uomo non era ancora arrivato a camminare sulla Luna. Ma sono anche una linea di confine. Perché tutti i tentativi di eguagliare quelle imprese sono sempre falliti.

Nel tennis. E anche nel calcio. Da quel giorno l’Italia ha vinto due Mondiali. Ma ha perso anche due Europei. Con il golden gol di Trezeguet contro la Francia. Senza mai neanche entrare in partita contro la Spagna. Più una Caporetto che una sconfitta. Grida di gioia che restano strozzate in gola. Bandiere che vengono piegate e riposte velocemente nei cassetti. Ci siamo convinti che non fosse più cosa per noi, appunto. Almeno fino ad oggi, almeno fino a quando l’alta definizione degli schermi piatti non ha iniziato a proiettare un altro tipo di immagini. Su quell’erba verde brillante Matteo Berrettini ha raggiungo Pietrangeli. E lo ha superato. Per tutto il torneo ha bombardato gli avversari con il suo servizio. Con la pallina che veniva schiaffeggiata dalla sua racchetta e schizzava via, a 236 chilometri l’ora. Un ace dopo l’altro (ha superato quota cento nel torneo), un punto dopo l’altro, ha aperto crepe in tutti i suoi avversari e li ha battuti. Tutti. Mentre la sua barba si allungava un millimetro alla volta per motivi scaramantici, la sua autostima si dilatava. La semifinale contro Hubert Hurkacz assomigliava già a un romanzo di fantascienza per un ragazzo cresciuto con i libri di Bukowski e di Hemingway, per uno che aveva scelto di stringere in mano una racchetta più per accontentare il fratello che per passione. Il fatto è che a volte la realtà e fantascienza si incrociano, si mescolano l’una con l’altra. E Berrettini ha spostato in avanti il confine.

La semifinale non era più il traguardo massimo, ma un punto di passaggio. Ha battuto Hurkacz in 4 set. A modo suo, con 22 ace. “Ho bisogno di un paio d’ore per realizzare quello che è successo”, dirà a fine partita. Oggi pomeriggio Berrettini calpesterà un’altra volta l’erba verde di Wimbledon. Con la speranza di non essere protagonista per sottrazione, di non passare alla storia solo come l’uomo che ha raggiunto la finale. Anche se davanti avrà Djokovic, il numero uno al mondo, l’uomo destinato a vestire i panni del cannibale. È l’erba verde di Londra che da superficie diventa metafora. Almeno per oggi. A venti chilometri da Wimbledon c’è un altro prato, un’altra storia, un altro pezzo di Italia che lotta per non restare un incompleto. Alle 21 la Nazionale sfida l’Inghilterra per lo scettro d’Europa. E proprio come Berrettini lo fa da dark horse, da cavallo sul quale sarebbe meglio non puntare. Sport diversi uniti dallo stesso filo, da una comunanza di intenti. Con Mancini che chiama tutti a raccolta con un Tweet: “Complimenti a Matteo #Berrettini, domenica tutti col cuore a Wimbledon e Wembley!”. L’idea è piuttosto chiara: vincere non è più una speranza semplice, ma una possibilità. Un concetto che quattro anni fa sembrava strampalato anche per i più ottimisti. Mancare la qualificazione al Mondiale russo è stato come spargere il sale sulle rovine di una squadra alle prese con complicatissimo ricambio generazionale.

Accettare l’incarico da ct sarebbe stato un onore, ma soprattutto ottimo modo per bruciarsi. Per chiunque. Colpa delle aspettative che non coincidevano più con la realtà tecnica. Mancini è riuscito a sovrapporle nuovamente. In pochissimo tempo. Più un affare per un santone che per un allenatore. O forse no. Perché il commissario tecnico ha creato una squadra in cui ci si può rispecchiare, un’entità astratta che ha chiuso con la solita narrazione del gioco all’italiana, che è andata oltre l’idea di imporre il proprio gioco, oltre la classe di un centrocampo che (Spagna a parte) è stato soverchiante, che ha superato le mancanze dei singoli giocatori. È un gruppo che conferma che il risultato non è dato dalla somma dei singoli, ma la loro moltiplicazione, che racconta di sentimenti semplici come l’amicizia, di emozioni che spesso vengono declassate a banalità ma che hanno finito per ricucire quello strappo fra tifosi e maglia azzurra. Una storia che cerca di farsi impresa su un campo che sarà infestato da undici fantasmi. Perché proprio a Wembley Mancini e Vialli hanno visto andare in frantumi il loro sogno più grande. Era il 1992. E si giocava l’ultima edizione della Coppa dei Campioni. La Sampdoria contro il Barcellona. Una partita speciale di cui oggi restano solo le cifre e il nome del marcatore: 0-1, gol su punizione di Rambo Koeman nei supplementari. Ora di quello stadio è rimasto solo il nome. Ed è lì che questa Nazionale proverà a eternarsi. Perché la giornata più importante della storia recente dello sport italiano si gioca sull’erba verde di Londra.

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