di Renato Foschi* e Philip Zimbardo**

Dopo l’uccisione di George Floyd, il mondo si è reso conto, ancora una volta, che anche nelle società democratiche sono diffusi atteggiamenti razzisti, violenti e omicidi; atteggiamenti presenti anche in istituzioni la cui missione dovrebbe essere quella di difendere la società, diffondere la giustizia e contribuire al suo armonioso funzionamento.

I casi sono numerosi e sempre identici: persone maltrattate in situazioni in cui dovrebbero essere protette. La custodia della polizia, il trattamento psichiatrico obbligatorio e soprattutto il carcere sono le situazioni in cui gli individui sono più a rischio. Recentemente sono stati diffusi dalle stesse autorità i video degli eventi che mostrano come è stata scatenata la violenza. Milioni di visualizzazioni su YouTube hanno rivelato una nuova pornografia, una pornografia del potere e della violenza.

È lo stesso caso di questi giorni in Italia, dove nell’aprile 2020 per sedare una ribellione dovuta alla sospensione delle visite familiari a causa del Covid, forze speciali della polizia penitenziaria hanno usato la violenza contro i detenuti del carcere di Santa Maria Capua Vetere, vicino Napoli. Scene cruente che colpiscono duramente anche chi le guarda e che si ripetono in modo simile in tutti i video. I meccanismi psicologici sono sempre quasi identici: deindividualizzazione dei soggetti coinvolti, disumanizzazione delle vittime, violenza per inerzia.

Se questo fosse accaduto in nazioni non democratiche, avremmo pensato che tale violenza del potere fosse il risultato di una dittatura. Invece, questa giustizia violenta ha costellato anche la storia della democrazia e produce una sorta di dissonanza cognitiva alla quale vorremmo trovare una soluzione. Come può una società democratica non dotarsi di istituzioni capaci di perseguire la giustizia senza ricorrere alla violenza contro i suoi cittadini?

Nel corso della sua storia, la psicologia ha cercato di fornire alcune soluzioni a queste sfide. All’inizio, credendo che la violenza fosse il risultato della particolare personalità degli individui (le mele marce), gli psicologi hanno pensato che fosse necessario modificare le mele. Poi, dimostrando che in certi cesti anche le mele migliori possono marcire, il punto di vista è cambiato: se è il cesto che contribuisce a creare la violenza allora è necessario riorganizzare tali cesti in modo che le mele buone non marciscano mai.

A partire dagli esperimenti di Stanley Milgram (1961) e della prigione di Stanford di Philip Zimbardo (1971), da sessant’anni la psicologia studia questi fatti e fornisce idee per prevenirli. Ci sono ormai molte prove a favore del potere della situazione; cioè, date certe condizioni (ideologiche, cognitive, culturali, emotive, comunicative) è facile che si scateni un comportamento violento. Perché allora la psicologia ha difficoltà a cambiare la società in meglio? Colpa degli psicologi? Magari non riescono a comunicare bene l’utilità delle loro scoperte. O forse tendono a farsi invischiare in inutili polemiche scientifiche sugli esperimenti, mentre il mondo va avanti nel solito modo.

Probabilmente, però, la forza dell’illusione che alla violenza si debba sempre e necessariamente rispondere con altrettanta violenza (la legge del taglione) è così pervasiva da sembrare una sorta di roccia basilare che condiziona gli esseri umani, impossibile da scalfire. Forse per sopravvivere il potere ha bisogno di “giustificare il sistema” e, nonostante gli avvertimenti della psicologia, continuerà a scatenare situazioni violente per “proteggere la società”. L’umanità è destinata a portare questi fardelli per sempre? Limiti che potrebbero anche mettere a rischio la sua stessa sopravvivenza come all’epoca della guerra fredda. Proprio la guerra fredda dimostra tuttavia che l’umanità, posta sull’orlo dell’abisso, finora è riuscita a salvarsi.

Come innescare comportamenti virtuosi che evitino l’autoritarismo, il razzismo o la “giustizia violenta”? Se si vuole “veramente” il cambiamento, non c’è altro modo che cambiare soprattutto “i cesti cattivi” e allora le mele cambieranno di conseguenza. Tutti gli attori di queste complesse dinamiche devono uscire dall'”incantesimo” che il potere debba necessariamente basarsi sulla violenza. Dobbiamo dismettere le peggiori interpretazioni di Machiavelli. Occorre immaginare che la violenza non sia il risultato delle corde pazze dei personaggi del “Berretto a Sonagli” di Pirandello. Dobbiamo abbandonare il pessimismo e organizzare un’altra società basata su altre istituzioni, altre carceri, altri servizi psichiatrici, e anche altre forze di polizia che facciano dell’umanizzazione delle relazioni la roccia basilare su cui dovranno essere costruite le nuove istituzioni.

Il percorso sarà lungo perché l’incantesimo su cui si basa la “giustizia violenta” è antico. Tuttavia, crediamo che tutti possiamo diventare eroi quotidiani che si oppongono al male promuovendo il bene delle persone, e il meglio nelle nostre istituzioni.

*Psicologo e Professore associato di Storia delle Scienze Psicologiche, Università “La Sapienza”
**Psicologo e Professore emerito della Stanford University (CA, Usa)

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