Fabio Capello cammina rapido verso la Curva Nord. Sporge in fuori la sua mascella di granito mentre sente la rabbia gonfiarsi nello stomaco. Gesticola ininterrottamente ormai da qualche minuto. Eppure nessuno sembra dargli ascolto. “Andate fuori”, grida. “Mancano cinque minuti. Andate fuori, cazzo”, urla. Agita in aria il pugno destro. Ancora e ancora e ancora. Poi si gira e mitraglia qualche insulto. Perché per la prima volta Fabio Capello ha paura. Teme che qualcuno possa cancellare quello che lui è riuscito a costruire, che possa intaccare la sua reputazione di vincente. È il pomeriggio del 17 giugno 2001. E la Roma sta battendo 3-1 il Parma. La partita è finita per tutti. Tranne che per il cronometro ufficiale. Il tempo diventa moviola, i secondi lunghi come ere geologiche. Così quando mancano sei minuti al fischio finale un fiume di tifosi giallorossi rompe gli argini e si riversa in campo. Sventolano le bandiere. Sfilano le maglie ai giocatori. Si abbracciano.

“Questo no. Questo no. Questo no”, strilla il commentatore di Roma Channel in diretta. Antonioli passeggia per il prato verde dell’Olimpico con solo i calzoncini addosso. Buffon, dall’altra parte, è un mutande e canottiera. La vittoria è certa. Ma quella festa rischia di trasformarsi in dramma sportivo. Perché se la partita non finisce, se il pubblico non ritorna sugli spalti, quel successo non verrà omologato. E la Roma perderà lo scudetto. Dai seggiolini sbiaditi dell’Olimpico parte un altro coro. “Uscite, uscite”. È un grido disperato. Fratelli che chiedono ad altri fratelli di fare in passo indietro. Nel vero senso del termine. È una sensazione straniante. Perché il finale rischia di non essere coerente con l’incipit di una storia straordinaria, iniziata esattamente un anno prima. Lo scudetto giallorosso è il romanzo piratesco e picaresco di Franco Sensi. Nasce da un’umiliazione, dalla rabbia per essere stati costretti a osservare la vittoria della Lazio nell’anno del Giubileo. Per i tifosi è una macchia indelebile. Lo ripetono a ogni partita.

“Franco Sensi bla bla bla”, cantano. “Sensi Sensi vattene”, gridano. Una partita dopo l’altra. Una prestazione opaca dopo l’altra. La storia cambia nel maggio del 2000. Franco Sensi parla, promette, giura. Poi versa sessanta miliardi alla Fiorentina e porta nella Capitale Gabriel Omar Batistuta. Un calciatore con la faccia da Gesù Cristo e due gambe come clave. È l’ultimo grande centravanti della sua generazione, un giocatore preistorico chiamato a trascinare la Roma nel nuovo millennio. Il suo acquisto è un inno alla gioia. Significa sputare in faccia l mondo le proprie ambizioni. Ma è anche la carta della disperazione. Perché non vincere avrebbe conseguenze economiche devastanti. L’ostensione del nuovo acquisto arriva il 7 giugno all’Olimpico. È un orgasmo collettivo dopo anni di castrazione. È un pomeriggio che riscrive i canoni dell’essere romanista. Perché una tifoseria che per anni è stata unita dal dolore per le sconfitte ora si ritrova a fare i conti con la consapevolezza di dover vincere. È in quel pomeriggio che un popolo intero impara che le lacrime possono cadere giù anche per la gioia. Ma lo scudetto cucito sopra una maglia racconta soltanto una parte di verità.

È una foto zuccherosa che tiene insieme sorrisi, pugni al cielo, abbracci. È miele colato sopra una storia per riempirne i buchi, per farla regredire al livello di favola. Il problema delle istantanee è proprio questo. Vengono scattate per ingannare sé stessi, per dilatare un frammento fino a renderlo sovrapponibile al quadro intero. Gli attimi felici finiscono in una cornice. Una parte per il tutto. Il resto, giù nel cestino. Ed è proprio qui che si trova la porzione più sapida della narrazione. Gelosie, rabbia, risentimenti, imprecazioni. Sentimenti neri come fondi triturati di caffè. Pulsioni che si condannano in pubblico e si abbracciano in privato. E che diventano il carburante necessario per ottenere qualsiasi risultato. Perché l’unione fa la forza, certo. Ma solo fino a un certo punto. La Roma del 2001 non è solo un gruppo di amici. È soprattutto un gruppo di rivali. Anche se spingono tutti nella stessa direzione. Il primo a suggerirlo è proprio Franco Sensi. Dopo aver annunciato Batistuta il presidente si ferma a parlare con i giornalisti. E dice: “Non scrivete quanto guadagna Batistuta sennò Totti chi lo sente”. Il più inquieto è Vincenzo Montella. L’arrivo dell’argentino vuol dire meno spazio. E magari dover rinunciare anche al numero 9. La polemica è fitta, le frecciatine continue. “Non sono il portaborse di nessuno, quella maglia è mia”, dice l’aeroplanino. “Parla così perché non sa che fra due mesi non sarà più alla Roma”, risponde qualcuno da Buenos Aires. “Non tocca a lui dire dove devo andare”, attacca ancora Montella.

A prendere tutti in contropiede, però, è Francesco Totti. “Se Batistuta vuole il mio 10 – dice dl ritiro della Nazionale – glielo do e mi prendo il 20″. L’inizio di stagione assomiglia molto a un incubo. Il 18 agosto la squadra sta terminando l’allenamento quando un grido fa scorrere un brivido lungo la schiena dei giocatori. Emerson, il gioiello del mercato giallorosso, è a terra. Si tiene il ginocchio. E si contorce. La diagnosi è terribile: rottura del legamento crociato anteriore sinistro. La prognosi è ancora più crudele: fra i sei e gli otto mesi di stop. Il campionato non è ancora iniziato e la Roma ha già perso l’uomo sul quale aveva modellato il suo centrocampo a tre. Durante l’amichevole contro l’AEK Atene sul tabellone dell’Olimpico appare la faccia di Emerson. Se ne sta seduto in tribuna con lo sguardo imbarazzato. Uno stadio intero inizia a battere le mani. E a gridare il suo nome. I tifosi gli hanno visto giocare solo un’amichevole. Eppure sono già innamorati di lui. Il brasiliano si mette a piangere. Si porta le mani agli occhi, ringrazia, giura che non dimenticherà mai quel momento. Ma lo farà.

Il campionato inizia a ottobre. Così a fine settembre si gioca la Coppa Italia. La Roma pareggia 1-1 in casa dell’Atalanta. Poi perde 4-2 a Bergamo. Nella Capitale scoppia la rivolta. Un migliaio di tifosi si riversano a Trigoria. Le auto dei calciatori vengono prese a calci. La BMW di Assuncao va incontro a una fine ancora peggiore. Perché qualcuno stacca gli specchietti retrovisori e poi li lancia contro la vettura. La tensione è alle stelle. Totti va a parlare con i tifosi. Ammette che hanno ragione. Ma dice anche che la squadra ha bisogno di tranquillità per riprendersi. Poi il capitano parla con il club. E lo convince a far entrare gli ultras a Trigoria per seguire l’allenamento. Dalla tribunetta piovono insulti a ripetizione. Verso tutti. “Noi l’amore, voi il disonore”. “Senza palle, senza cuore, di Roma il disonore”. E ancora: “Andate a lavorare”. In molti chiedono a Sensi di cacciare l’allenatore. Immediatamente. Poi si rimboccano la voce: “Capello torna a Milano“, cantano. “Capello servo di Berlusconi“, gridano. Un pomeriggio di follia che passerà alla storia. Perché è proprio in quel giorno che viene scritto l’atto costitutivo di una Roma tutta nuova. Quella squadra diventa eterea. Si scompone e ricompone a ogni partita, trovando sempre un modo diverso per mandare al tappeto l’avversario. In certe giornate vince con la potenza. In altre con una tecnica straordinaria. È una Roma verdoniana. Può essere ferro e può essere piuma. Ma il risultato è (quasi) sempre lo stesso.

Ogni partita diventa diapositiva. Racconta in modo diverso legame fra la Roma e la sua gente, diventa parte della narrazione di una capitale che da periferia calcistica vuole diventare centro. I gol sono flash che si stampano in una memoria collettiva e condivisa, le vittorie si susseguono una dietro l’altra, ma l’abitudine al successo non ne annacqua la specificità, non ne esaurisce la carica. È la Roma del gruppo, ma anche dei singoli. È la Roma di Batistuta. Del suo colpo di mortaio che nella sfida casalinga contro la Fiorentina fa sparire il pallone e lo fa riapparire alle spalle di Toldo. Delle sue lacrime di gioia e di dolore insieme, che fanno commuovere allo stesso tempo due città. Della sua doppietta al Parma a febbraio. Lancio dalla difesa, destro di Batistuta, gol. Lancio del centrocampo, destro di Batistuta, gol. Due colpi che ribaltano i ducali. E le speranze delle altre. È la Roma di Delvecchio, l’attaccante sgobbone che dimostra che si può essere fondamentali anche segnando solo tre gol in campionato. È la Roma di Montella. Della sua tecnica delicata, del suo opportunismo in area, delle sue panchine, dei suoi silenzi, dei suoi calci alla bottiglietta dell’acqua, della sua pace armata con Capello. Un attaccante straordinario che in quell’annata dovrà fare i conti con una frase di Ennio Flaiano: “È afflitto da un complesso di parità, non si sente inferiore a nessuno”. E ha ragione.

È la Roma degli esterni. Di Candela, con la sua andatura da rugbista, i suoi movimenti sinuosi, la sua classe straordinaria, e di Cafù, il pendolino, l’uomo del doppio sombrero a Nedved, una freccia che sa far tutto tranne segnare. È la Roma dell’eterno Aldair e del redivivo Tommasi, quell’Anima Candida che per una stagione mette tutti d’accordo. Contrasti, passaggi, lavoro sporco. Tutto ripetuto all’infinito. È la Roma di Nakata, il giapponese silenzioso (il suo interprete è diventato una delle icone di Mai Dire Gol) che a maggio, con la Roma sotto di due gol in casa della Juve, Capello manda in campo al posto di Totti. È una mossa folle. È una mossa geniale. Nakata segna. Nakata ispira. Finisce 2-2. È la Roma di Samuel, il muro, il ministro della difesa, l’argentino marmoreo dalla faccia da oplita, ma è anche la Roma di Mangone, di Zago, di Zebina. È soprattutto la Roma di Totti. Non solo per i gol. Non solo per la classe. Non solo per le giocate da impazzire. È l’annata in cui il dieci va oltre la sua iconografia. È la stagione in cui diventa capitano. Non soltanto per detenzione della fascia. Un concetto che Totti chiarisce ad aprile, davanti a un Olimpico stracolmo.

Antonioli si esibisce in un errore grossolano che spalanca la porta al Perugia. È gol. La Roma è sotto di due reti. Il pubblico inizia a fischiare. Il capitano va sotto la Curva e dice: “Ma cosa fate? Siamo primi”. Ma è anche una Roma che trasforma tutto ciò che tocca in poema epico. A dicembre il derby d’andata è inchiodato sullo 0-0. Almeno fino a quando Nesta non rinvia addosso a Paolo Negro. È l’autogol che trasforma il difensore in idolo di una Curva. Anche se quella sbagliata. Ad aprile la gara in casa della Fiorentina viene spostata al lunedì. Motivi di ordine pubblico, si dice. Meglio evitare la presenza di troppi tifosi. I romanisti si presentano in massa. “Siamo tutti parrucchieri”, scrivono su uno striscione. Una frase che diventa tormentone. Anche se il campo racconta una storia diversa, con la Viola che si impone 3-1. Una stagione perfetta che si è conclusa in quel pomeriggio del 17 giugno, quando Capello si è trovato a respingere una tifoseria intera. Fino a quando il gioco non è ripreso per obbligo di firma. Con Buffon fasciato in una maglietta della Roma girata al contrario. Con i giocatori che si scambiano il pallone in attesa della liberazione. “Mai scudetto fu più meritato”, dirà Francesco Repice in chiusura di telecronaca. Una frase che ripetono in molti. Anche Franco Sensi, che subito dopo il triplice fischio ha avuto un piccolo malore. “Chissà come arriverà a questa sera”, dice la moglie Maria. Il presidente la guarda e si rimette subito in piedi. Perché quella festa è la sua festa. Perché stavolta Sensi ha mantenuto la sua parola. Stavolta ha trasformato davvero la periferia in centro.

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