Ratko Mladic, il boia dei Balcani, dunque sconterà i suoi ultimi anni di vita in galera, nel penitenziario di Scheveningen. L’ex capo militare serbo ha 78 anni, pare stia male e però, a differenza delle decine di migliaia delle sue vittime – centinaia erano all’ospedale di Vukovar, ma lui ordinò di massacrarle, tanto per ricordare uno dei più cruenti episodi che lo riguardano – verrà curato con il massimo scrupolo, perché così vuole la legge. Quella che Mladic ha sempre ferocemente calpestato ed irriso. Quella che poi, nella sua lunga latitanza, ha aggirato e ingannato, grazie a complicità politiche vergognose e all’inerzia di chi poteva catturarlo ben prima del 2011, quando fu preso, dopo sedici anni di fuga e di protezioni.

Lo hanno deciso all’Aja, poco lontano dalla sua prigione, i giudici del Meccanismo per i tribunali penali internazionali (MTPI, erede dei lavori in sospeso del Tribunale penale internazionale per l’ex Yugoslavia dopo la sua chiusura), e non è stata una sorpresa. La condanna di Mladic è anche fortemente un simbolo. La giustizia, prima o poi, c’è. L’appello di Mladic contro l’ergastolo che gli era stato comminato nel 2017, dopo un processo durato tre anni, è stato infatti rigettato e la pena confermata. L’Onu ha gradito l’attesa decisione tramite una nota di Michelle Bachelet, Alta Commissaria ai Diritti dell’Uomo: “Il verdetto (…) sottolinea la determinazione della giustizia internazionale alla resa dei conti, non importa quanto tempo comportasse, e, nel caso di Mladic, circa trent’anni dopo i suoi crimini abominevoli”.

Nel comunicato sottoscritto anche da Alice Wairimu Nderitu, consigliera speciale del Segretario generale delle Nazioni Unite per la prevenzione dei genocidi, ci si premura di sottolineare l’importanza politica di questa sentenza definitiva ed inappellabile: “Invia un messaggio molto importante ai Balcani occidentali”. Perché mai? Perché purtroppo la situazione della regione balcanica è di nuovo critica, “si vede la negazione del genocidio e la glorificazione dei criminali condannati, come Mladic, non soltanto persistere ma amplificarsi”.

Noi discutiamo di coprifuoco, di quante persone debbano stare al ristorante sedute attorno allo stesso tavolo, di decreti per il rilancio dell’economia; a poche centinaia di chilometri, invece, nel cuore dell’Europa dell’est, il seme dell’odio e del negazionismo germoglia di nuovo, la retorica nazionalista sparge la discordia, parole e atti sistematicamente acuiscono le tensioni tra le comunità e tra gli Stati. Qualche giorno fa, per esempio, una chiesa ortodossa serba, illegalmente costruita nel 1998 dopo la guerra in Bosnia sulla proprietà di una famiglia musulmana nella regione di Srebrenica, è stata demolita, ma ci sono voluti anni e anni di battaglie giudiziarie, di polemiche, di minacce. E di scontri fisici tra le comunità serbe (ortodosse) e bosgnacche (musulmane), come avvenne nel 2004. La demolizione, per fortuna, è stata eseguita senza incidenti, i materiali sono stati trasportati a Bratunac, dove la chiesa verrà ricostruita.

Il problema è che la giustizia da sola non può condurre alla riconciliazione, ma non vi potrà essere riconciliazione senza giustizia, è il ragionamento dell’Onu. Anche tardiva. Perciò, verrebbe da dire che giustizia è stata fatta, se pensiamo alla condanna di Mladic. Balle. E’ proprio nel suo ritardo, eccessivo, la dimostrazione che una lenta giustizia non basta, anzi. In epoca di memorie brevi, la giustizia lentissima è ingiustizia (penso al processo di piazza Fontana…).

L’ex capo militare serbo, condannato per genocidio, crimini contro l’umanità e crimini di guerra (lo sterminio degli ottomila uomini e giovani di Srebrenica, l’assedio di Sarajevo, costato la vita a diecimila abitanti) era rimasto uccel di bosco per troppo tempo, un tempo in cui si è smarrito l’onore d’Europa, quando un contingente olandese (tre compagnie dell’Unprofor, i caschi blu) che avrebbe dovuto vigilare nella “zona protetta” di Srebrenica, fece ben poco per impedire il massacro.

Con contabilità da becchini, i Paesi Bassi dopo decenni di controversie giudiziarie, vennero riconosciuti responsabili al 10 per cento della loro viltà. Gli olandesi, infatti, avevano respinto 350 bosniaci musulmani che cercavano riparo nella base dell’Onu, a Potocari, vicino Srebrenica. Peggio. Il Dutchbat, il reparto speciale dell’esercito olandese, li consegnò alle truppe di Mladic. Furono tutti ammazzati. In una prima sentenza, la responsabilità calcolata dalla corte suprema dell’Aja fu del 30 per cento. In appello, lo sconto. Come si fa al mercato.

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