Agli inizi del mio percorso professionale, la pericolosità di frane e alluvioni veniva valutata con criteri per lo più empirici. Erano basati sul presupposto che i maggiori eventi osservati in passato costituissero anche il limite fisico degli eventi futuri. E mai la gente avrebbe visto piene di progetto superiori a quanto visto in passato.

Purtroppo, negli ultimi due secoli – da quando cioè si fanno calcoli idrologici – i valori della piena di progetto sono raramente diminuiti. Generazione dopo generazione, ogni successivo “approfondimento” ha consigliato ai progettisti di aumentarli. Fiumi come il Bacchiglione e Bisagno sono prototipi in cui l’esperienza ha dimostrato che le valutazioni erano difettose. E non sono eccezioni, bensì la regola.

Harold Edwin Hurst spiegò questa circostanza con il concetto matematico di memoria di lungo periodo studiando i deflussi del Nilo. Altri ricorsero alla legge di Murphy, nella forma: “Se qualcosa può andar male, andrà male”. Un assunto che si può facilmente dimostrare per via matematica, utilizzando un paio di teoremi di statistica. E, nel corso degli ultimi 50 anni, la mia generazione ha contribuito ad affermare criteri più razionali, basati sulla lettura probabilistica di questi eventi. Oggi è diventato lo standard di valutazioni e previsioni della pericolosità, in termini statistici.

Bastano i numeri? Lo avevo pensato per molti anni, dedicati a migliorare la capacità di fare previsioni. Avevo sempre ritenuto che la scala di riferimento dovesse fondarsi sulla forza oggettiva dei numeri. E basta. A fine carriera, sto però riflettendo sull’analisi qualitativa che, con le sue profonde radici olistiche, ha guidato la missione degli idraulici italiani che – dopo le lezioni di Leon Battista Alberti e Leonardo da Vinci –introdussero nel XVII secolo i fondamenti di questa materia. L’analisi quantitativa è certamente fondamentale, ma la conoscenza qualitativa non va accantonata come priva di valore scientifico.

Come molti coetanei, avevo sempre considerano Charles Frank Richter un vero, grande scienziato, a fronte di Don Giuseppe Mercalli, modesto cultore in materia di terremoti. Richter è il padre della scala di magnitudo locale, fondata sulla misura dell’energia, la base conoscitiva che ci permette di migliorare la resistenza degli edifici. Per contro, la scala Mercalli valuta, in modo qualitativo, l’impatto dell’evento sulla superficie terrestre, su persone, cose e manufatti. Diverso da luogo a luogo, da infrastruttura a infrastruttura, da casa a casa.

Se ci mettiamo nei panni di un cittadino soggetto a rischio, però, costui sarà certamente più sensibile all’approccio di Mercalli, che oggi definiremmo “bottom-up”, rispetto alla pur decisiva e puntuale valutazione del rischio che offre la scala Richter, un approccio di tipo “top-down”. Per il cittadino, la conoscenza soggettiva, tipica di un ragionamento “bottom-up” è importante almeno quanto quella che gli viene calata dall’alto. E la percezione del rischio è affatto soggettiva, come hanno mostrato gli studi di alcuni colleghi che hanno collaborato all’ultimo progetto scientifico della mia lunga carriera (Spaccatini, F, Pancani, L, Richetin, J, Riva, P, Sacchi, S. Individual cognitive style affects flood-risk perception and mitigation intentions. J Appl Soc Psychol., 2021, 51: 208–218; a libera consultazione).

La percezione del rischio dei pericoli naturali è stata ampiamente studiata come uno dei fattori determinanti del comportamento e delle intenzioni comportamentali delle persone. Tuttavia, la percezione è un fenomeno fortemente individuale, regolato dalla distanza psicologica dall’evento avverso. La comunicazione pubblica e le politiche di gestione del rischio non possono trascurarlo.

I numeri aiutano, sono fondamentali, ma non bastano. Per questo, a fine corsa, ho proposto un piccolo progetto scientifico, Florimap, per iniziare a mescolare conoscenza quantitativa e qualitativa, soggettività e oggettività. Se vogliamo un futuro diverso dal passato, contenere il danno e, soprattutto, evitare quanto possibile le vittime, è necessario allargare l’orizzonte culturale.

Contributi multidisciplinari e visioni condivise sono indispensabili per dare una svolta alla questione idrogeologica italiana, che tormenta il paese da quasi due secoli. Per rispondere a domande tuttora aperte sulla efficacia delle mosaicature del rischio, sull’influenza del clima che cambia, sulla comunicazione e sul tracciamento in caso di emergenza (che con la pandemia non è stato un successo). E sulla capacità della società di condividere anziché competere.

Per questo motivo, il Seminario Finale del progetto – “Politiche smart di gestione del rischio alluvionale nell’Italia post-pandemica“, a libera partecipazione – riunisce intorno al tavolo virtuale contributi di estrazioni complementari a quelle che hanno collaborato al progetto Florimap, supportato dalla Fondazione Cariplo. Sarà l’occasione per discutere le nuove tematiche di progetto e l’evoluzione delle strategie per la gestione e mitigazione del rischio alluvionale, con uno sguardo al futuro, nel rispetto degli insegnamenti del passato.

Articolo Precedente

Covid, rara variante sequenziata a Bordeaux. Campagna di screening e vaccinazione rapida di un intero quartiere

next
Articolo Successivo

Vaccino, Cdc studiano i problemi cardiaci riscontrati su un ristretto numero di giovani. Remuzzi: “Servono più dati”

next