Ora che le restrizioni alla libertà individuale sono in via di attenuazione, tutti desideriamo riprendere la nostra decisionalità. Ecco che, in questa fase, abbondano coloro che parlano di resilienza. In psicologia si tratta di un termine d’uso relativamente recente – venti/trenta anni – ed indica la capacità dell’individuo di fronteggiare il cambiamento successivo ad una situazione di stress acuto o prolungato, riorganizzando la propria vita in termini positivi. Per intenderci, quindi, non è una mera resistenza alle difficoltà, ma una capacità di adattamento, condita con un pizzico di creatività per trovare nelle nuove situazioni qualcosa di innovativo per la propria vita.

Confesso di non essere un grande estimatore di questo termine e del modo di pensare che spesso sottende. Coloro che lo utilizzano troppe volte paiono degli imbonitori che ti vogliono spingere ad essere sempre ottimista, fiducioso, pronto a risolvere i problemi (usano il termine problem solving per fare apparire il tutto più alla moda) e sviluppare nuove competenze (le skills piacciono molto). Sinceramente, credo maggiormente nell’elaborazione del lutto, nella necessità che questa fase della vita non sia negata e misconosciuta.

In questo momento stiamo affrontando un grande lutto collettivo che riguarda la nostra fiducia, prima fra tutte quella nell’onnipotenza tecnologica. È vero che abbiamo trovato il vaccino velocemente, ma abbiamo dovuto capire che la natura può schiacciarci come moscerini. Questo senso di impotenza ce lo porteremo appresso per molto tempo. Se dovessimo utilizzare collettivamente la resilienza dovremmo, creativamente, unirci maggiormente agli altri esseri umani, sentire di essere tutti nella stessa barca ed evitare di dividerci sulle altre terribili sfide che si stagliano all’orizzonte quali, ad esempio, la sovrappopolazione sbilanciata (con le conseguenti migrazioni) e il surriscaldamento globale.

Accanto ai lutti collettivi esistono poi quelli familiari ed individuali, determinati dalla perdita di persone care o da tracolli economici. Anche in questi casi credo che una fase di lutto sia necessaria e ineliminabile. Una sana resilienza è auspicabile, ma deve sempre essere successiva al riconoscimento del lutto e al suo superamento. In caso contrario emergerebbe un cattivo cambiamento, col quale si cerca di affogare ogni difficoltà in una sorta di sbornia consumistica.

Già si intravede questo rischio con il dominio dell’economia sull’uomo. Il termine resilienza viene, spesso a torto, utilizzato per indicare la necessità che gli esseri umani si adattino ai cambiamenti che l’economia impone. I dogmi economici, secondo i quali il Pil deve sempre aumentare, così come i consumi e la produttività, pongono l’essere umano di fronte alla necessità di adeguarsi, accettando nuove regole. Il termine resilienza viene usato per questo processo di trasformazione degli stili di vita e delle credenze degli uomini, a vantaggio dell’economia. Se il sistema economico pretende che un giovane divenga un rider che in bicicletta o in motorino porta in giro i pasti per pochi denari, ci si deve adattare.

Per questo mi sento così avverso al termine resilienza e più vicino al termine resistenza. L’uomo moderno dovrebbe, a mio avviso, resistere e pretendere che la società metta al centro i suoi bisogni. Il sistema produttivo dovrebbe adattarsi alle necessità umane, anche a discapito dei risultati delle vendite e dei guadagni, e non viceversa. Capisco che nella società globalizzata il ricatto è dietro l’angolo: “se quel lavoro a quelle condizioni non volete farlo ci sono paesi in cui si può fare o persone disposte ad emigrare per farlo”. Per questo motivo solo con un’autoconsapevolezza collettiva, frutto del lutto e della sua elaborazione, si potrà dettare il cambiamento e non subirlo.

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