Un sequestro da oltre 200 milioni di euro. È il provvedimento emesso dalla sezione Misure di prevenzione del Tribunale su richiesta della Dda di Catanzaro nell’ambito dell’operazione “Scuderia” nei confronti di tre imprenditori. Al centro c’è Giuseppe Lobello, già destinatario nel marzo scorso di una misura cautelare e ritenuto dai pm il “punto di riferimento per la cosca Arena” di Isola Capo Rizzuto perché collettore delle estorsioni imposte dalla ‘ndrangheta nei cantieri edili del catanzarese. Lui, il padre Antonio e i figli Giuseppe e Daniele sono infatti indiziati, a vario titolo, nell’inchiesta denominata “Coccodrillo” di interposizione fittizia di beni, riciclaggio, autoriciclaggio.

Al termine delle indagini, le fiamme gialle hanno messo i sigilli a 110 fabbricati e 49 terreni che si trovano a Catanzaro e nei comuni di Simeri Crichi, Settingiano e Cirò Marina. Sono stati sequestrati anche 67 automezzi, 5 motoveicoli, quote sociali relative a 13 aziende, tra il catanzarese e Firenze, e complessi aziendali di 12 società operanti nel settore dell’edilizia pubblica e privata e della ristorazione. Si tratta di aziende che si erano aggiudicate pure numerosi appalti pubblici. Il procuratore Nicola Gratteri, l’aggiunto Vincenzo Capomolla e i pm Debora Rizza e Veronica Calcagno hanno contestato a Giuseppe Lobello pure i reati di estorsione e di concorso esterno in associazione mafiosa.

Dall’inchiesta era emerso che gli imprenditori avevano intestato le loro aziende ad alcune “teste di legno” con l’obiettivo di tutelare il patrimonio da possibili sequestri da parte dell’autorità giudiziaria. Rischio che era più che concreto dopo che la prefettura di Catanzaro aveva emesso l’interdittiva antimafia nei confronti delle società riconducibili agli indagati: “Cal.Bi.In. Srl”, “Cantieri edili – Iniziativa 83 Srl” e “Strade Sud Srl”. Le indagini del Gico hanno consentito alla Dda di ricostruire l’impero dei Lobello, titolari di un patrimonio che si ritiene sproporzionato rispetto ai redditi dichiarati o alle loro attività economiche. Gli accertamenti degli investigatori, infatti, hanno fatto emergere quella che i pm definiscono una sorta di “holding familiare”. Nella precedente inchiesta erano stati coinvolti anche i ragionieri delle loro aziende. Professionisti che “mantenevano il controllo contabile e finanziario delle diverse imprese effettuando, all’occorrenza, le movimentazioni bancarie necessarie ‘per far quadrare i conti’”. L’obiettivo per i Lobello, ritenuti “soggetti contigui ai clan Mazzagatti di Oppido Mamertina e Arena di Isola Capo Rizzuto”, era quello di “schermare il patrimonio sociale”, si legge nelle carte.

Accogliendo la richiesta della Procura, nel decreto di sequestro il giudice Giuseppe Valea ha sottolineato come l’operazione “Scuderia” ha “disvelato un vero e proprio sistema fraudolento, diretto ad occultare la riconducibilità di svariate imprese alla famiglia Lobello”. Gli imprenditori, infatti, “partecipavano a numerose gare d’appalto i cui corrispettivi, dopo essere confluiti sui conti correnti delle imprese appaltatrici fittiziamente intestate a terzi, venivano movimentati, su disposizione dei Lobello, dai collaboratori del gruppo sui conti correnti di altrettante società del gruppo Lobello, consentendo così agli effettivi titolari di rientrare, dopo una sequela di operazioni bancarie, nella effettiva disponibilità del denaro”.

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