“Se un popolo protesta e scende in piazza nel mezzo di una pandemia, vuol dire che il suo governo è più pericoloso di un virus”. Viene sintetizzato con questo slogan – popolarissimo a Bogotà – il pensiero di milioni di colombiani in questi giorni. Lo scorso 28 aprile, infatti, sono iniziate pesanti mobilitazioni contro il progetto di riforma fiscale presentato dal governo di Iván Duque. Mobilitazioni che si sono rapidamente diffuse in tutto il Paese, con imponenti manifestazioni, scioperi e scontri violenti. Bogotà – la capitale – e Cali sono tuttora i nuclei principali delle proteste, a cui il governo ha risposto con una durezza estrema: almeno 24 i morti, secondo l’ufficio del Difensore civico colombiano. Ottantanove le persone di cui si sono perse le tracce e oltre 800 feriti. Una brutalità condannata dall’Onu, dalla Ue e da numerose organizzazioni non governative, che denunciano l’uso spropositato della forza da parte della polizia colombiana.

La miccia – Tutto è nato dal disegno di legge che il presidente Duque, del partito di destra Centro Democrático, paradossalmente nominato di “solidarietà sostenibile”. Un progetto – che lo stesso Duque ha chiesto al Congresso di ritirare dopo i primi giorni di proteste – che mirava a fronteggiare la crisi dovuta alla pandemia con risorse provenienti in gran parte dalla già martoriata classe media. Oltre all’aumento delle imposte dirette e indirette, in particolare sui beni di largo consumo, la reforma tributaria prevedeva di diminuire significativamente la soglia di no tax area, includendo quindi nella tassazione fasce di popolazione ai limiti della soglia di povertà. Proprio adesso che, a causa della pandemia, il 42,5% rientra in questa categoria: circa 21 milioni di abitanti su 51, di cui ben sette milioni in povertà estrema.

Dopo l’escalation di violenza il progetto è stato accantonato, ma le proteste sono continuate. Anche perché lo stesso presidente ha ribadito la volontà di elaborare “urgentemente” una nuova iniziativa, “frutto però del consenso”. E su binari paralleli procede anche un’altra riforma, quella del sistema sanitario, attualmente in Parlamento. Riforma che aumenta le privatizzazioni e, secondo il personale ospedaliero, peggiora le condizioni di lavoro negli ospedali colombiani. Ecco perché a solidarizzare con i manifestanti ci sono anche i lavoratori della sanità, in un Paese che conta quasi tre milioni di contagiati e oltre 72mila morti a causa del Covid-19.

Le richieste della piazza – La repressione delle proteste voluta dal governo – il ministro della Difesa Diego Molano ha spiegato che la militarizzazione delle città serve per affrontare quelle che ha definito “organizzazioni criminali” che orchestrano le rivolte – non ha spento le contestazioni. Anzi. Nonostante gli spari sui manifestanti (i morti sono tutti civili), gli abusi e le accuse di stupro, le piazze colombiane sono piene di musicisti, studenti e lavoratori. Un blocco variegato che fa emergere una serie di rivendicazioni latenti da anni: dalla situazione economica sempre più penalizzante per la maggioranza della popolazione alle istanze femministe, che chiedono la depenalizzazione dell’aborto. Dal rispetto degli Accordi di pace tra governo e guerriglieri delle Farc, firmati nel 2016 ma rimasti largamente inapplicati, alla fine delle sistematiche violazioni dei diritti umani, in particolare contro indigeni, contadini e oppositori politici. In Colombia, ogni 41 ore viene assassinato un leader sociale. La situazione è in costante evoluzione, ma ricorda gli inizi dell’estallido social scatenatosi in Cile nell’ottobre 2019, quando dall’aumento dei prezzi per la metropolitano scaturì una rivolta che portò il popolo cileno a sollevarsi, chiedendo un radicale cambio di sistema e ottenendo il referendum per scegliere una nuova Costituzione. Vinto con una valanga di Apruebo. Per ora è presto, ma sono in tanti a chiedersi se, come per il Cile, anche la Colombia si stia sollevando.

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