di Nicola Cirillo

Nel campo del Covid sono state schierate tante discipline: virologia, epidemiologia, infettivologia, chimica, tutte con una dignità propria da difendere e affermare, a volte a scapito delle altre. Ma una scienza in particolare, la statistica, è stata strumentalizzata solo per avallare ipotesi o condizionare l’opinione pubblica, per indirizzare scelte politiche o scelte d’affari. E’ stata vilipesa, manipolata per ignoranza o per malafede. Una sorella povera, ma intelligente, che se usata bene sarebbe in grado di mettere in riga le sorelle arroganti e meno intelligenti. Se dobbiamo appellarci a una scienza, allora, perché non alla statistica? Alla buona, onesta statistica, ovviamente.

A volte penso che se all’università avessi esposto i dati come fanno la Protezione civile e l’Istituto Superiore della Sanità parlando di curve di contagi, molto probabilmente mi avrebbero bocciato all’esame di Statistica. Ma forse lo avrebbero già fatto alle elementari, quando mi insegnarono a non sommare le mele con le pere. Ricorderete che nei primi mesi della pandemia venivano annunciati solo dati assoluti di nuovi contagi, descrivendo grafici per semplici sommatorie di casi, senza considerare il numero e la qualità dei tamponi effettuati?

“Oggi i nuovi positivi sono 1550”, “oggi 300, perché è domenica”. E giù tabelle e grafici che “dimostravano” l’andamento del contagio. L’andamento del contagio! Dio mio. Poi, per non abusare troppo della nostra ignoranza, nella comunicazione è stato introdotto l’indice di positività, che calcola il numero di positivi sul totale dei tamponi effettuati, ma con la brillante idea di far decidere alle Regioni, in piena autonomia, cosa comunicare come numeratore e cosa come denominatore. Le Regioni adottano procedure legittime, ma non uniformi: la Sicilia, solo per fare un esempio, per un positivo al tampone rapido effettua un tampone molecolare, che se positivo incide nel data set come due tamponi effettuati per lo stesso positivo, riducendo così il tasso di positività comunicato, ma fornendo un’indicazione evidentemente errata.

Che dire poi della superficialità con cui vengono confusi concetti come “incidenza”, “frequenza” e “probabilità” quando si parla degli eventi avversi dei vaccini? Riviste e opinionisti per tranquillizzare sugli effetti del vaccino ripetono paragoni confusi: “è più probabile avere una trombosi se sei sovrappeso, fumatore e prendi l’aereo”, “è più probabile morire affogati nella vasca da bagno”, “è più probabile avere una trombosi usando un contraccettivo” e altri paragoni, con percentuali e indici ben in evidenza. Ma il punto è che casi avversi si sono verificati anche in soggetti non fumatori e sovrappeso. Molti una vasca non la vedranno mai in vita loro perché preferiscono la doccia, e tanti la pillola anticoncezionale non la prenderanno, perché maschi o in età non fertile. Ma tutti, magari, faranno il vaccino.

Questi paragoni sviliscono la statistica, che è una scienza umile, ma precisa. Sa bene che quello che può offrire sono solo dati, elaborazioni o indicazioni, a volte aleatorie. Sa che la scelta della pallina bianca o della pallina rossa in un bussolotto, classico esempio di calcolo delle probabilità, riguarda le palline, non vite umane, ma fornisce il suo modello alla politica, che prenderà le decisioni più sagge – si spera – per le vite umane. Non ha l’arroganza di chi difende strenuamente una molecola, una diagnosi, una cura, salvo poi smentirsi un mese o un anno dopo.

Perché le scienze – le altre scienze – sono fallibili: è il tempo, l’esperienza e lo studio che perfezionano molecole, diagnosi e cure. La forza delle scienze risiede proprio nella loro fragilità e nella coltivazione del dubbio, perché è ciò che le rende “progressive”. Il dubbio è quello che le distingue dalle teorie complottistiche. Il tempo e l’esperienza, invece, sono variabili che la statistica maneggia con lucidità per supportarle nella loro ricerca, nella loro abilità.

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