L’organizzazione non governativa Iran Human Rights ha pubblicato il suo 13esimo rapporto sulla pena di morte in Iran.
Le esecuzioni registrate nel 2020 sono state almeno 267, rispetto alle 280 del 2019 e alle 273 del 2018. Anche se si riscontra un piccolo calo rispetto all’anno precedente, va sottolineato che la diffusione della pandemia da Covid-19 non ha minimamente disturbato il lavoro dei boia nei bracci della morte iraniani. E quell’avverbio, “almeno”, sta a indicare che il conteggio potrebbe essere incompleto, dato che in media solo un terzo delle esecuzioni viene reso noto dalle autorità.
Delle 267 condanne a morte eseguite lo scorso anno, 211 hanno riguardato omicidi e 25 reati di droga; due condanne a morte sono state eseguite per partecipazione a manifestazioni, una per consumo di bevande alcooliche, una per la gestione di un canale social a contenuto politico. Sulle altre non sono disponibili informazioni. Le donne messe a morte sono state nove, i minorenni al momento del reato quattro e altri 84 sono in attesa dell’esecuzione.
È stato registrato un aumento delle esecuzioni nei confronti delle minoranze etniche, soprattutto i baluci. Una tendenza confermata nei primi mesi del 2021: un terzo dei prigionieri messi a morte apparteneva a quell’etnia.
Un dettaglio molto importante riguarda le condanne a morte che non sono state eseguite a seguito del perdono concesso dalle famiglie delle vittime: 662 rispetto alle 274 del 2019. In altre parole, se le famiglie non fossero intervenute, nel 2020 le esecuzioni sarebbero state quasi un migliaio.
Resta in isolamento da fine novembre e a rischio costante di impiccagione lo scienziato iraniano-svedese Ahmadreza Djalali: le sue condizioni di salute sono così precarie che rischia di morire prima che, nella sua cella, si affacci il boia.
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