L’ha anticipato il Presidente Mattarella nel messaggio di fine anno, sennò alzi la mano chi se ne sarebbe accorto. Centosessant’anni fa, il 17 marzo 1861, Vittorio Emanuele II, sino ad allora re di Sardegna, proclamò ufficialmente l’Unità d’Italia, assumendo per sé e discendenti il titolo di re. C’erano state la seconda guerra d’indipendenza, vinta sull’Austria-Ungheria con l’aiuto determinante della Francia, le annessioni della Lombardia austriaca, i plebisciti nel Centro papalino, la spedizione dei Mille nel Sud borbonico. E fra i grandi Stati europei non siamo neppure riusciti ad arrivare ultimi, sulla strada dell’unificazione: la Germania si aggiunse un decennio dopo. Forse potremmo considerarci ultimi contando anche Trento e Trieste, “redente” solo nel 1918, a prezzo del macello chiamato Grande Guerra. Sarà per questo che molti italiani, ignari della geografia, tendono a confonderle l’una con l’altra.

Inutile girarci attorno: che senso ha, centosessant’anni dopo, in un mondo divenuto piccolissimo e irriconoscibile, celebrare ancora quest’anniversario? Di fatto, la Festa dell’Unità, da non confondere con quella del PCI-PDS-PD, fu istituita cinquant’anni dopo l’unificazione, nel 1911, in un clima di fervente patriottismo poi sfociato nel macello di cui sopra. Quindi fu ancora celebrata con passabile entusiasmo in occasione del centenario, nel 1961: ma c’erano appena state le Olimpiadi di Roma, per non parlare del boom economico. Per i centocinquant’anni, nel 2011, c’è stato un po’ più di movimento, se non altro perché gli storici trovarono il modo di dividersi fra neo-sabaudi e neo-borbonici: che sarebbe come chiedersi, oggi, se preferire Zaia o De Luca. Insomma, essendo quella dell’Unità una festa solo civile, senza sospensione di scuole e lavoro, oggi già sospesi di loro, è difficile persino accorgersene, figurarsi scaldare i cuori

Come la celebreremo stavolta, in piena pandemia? Da remoto, a distanza? Eppure, o forse proprio per questo, le classifiche dei libri sono piene di longseller che identificano in Dante, a settecento anni dalla morte, il padre dell’identità italiana, oppure che si chiedono ancora come sono cambiati i neo-italiani, gli italiani post-pandemici, non in meglio, non in peggio, ma allora chissà. L’unica cosa in cui non cambieremo mai, oltre che nelle preferenze librarie, sta nel fatto che, attribuendoci una storia trimillenaria, mica solo secolare come i più modesti Stati Uniti, abbiamo un tale sproposito di anniversari che è un peccato non approfittarne. Anche quando, come in questo momento, non ci siamo mai sentiti così spaesati: specie noi genovesi-triestini, cittadini del mondo anche perché più lontani degli altri.

In effetti, cosa ci unisce ancora, noi italiani post-pandemici, voglio dire? Non la rete, dove si può essere indifferentemente qui o altrove, con l’unica differenza del fuso orario. Non le città e le Regioni, neppure più tricolori ma almeno quadricolori, per tacere delle sfumature di rosso, seppure amministrate da forze ormai quasi tutte rappresentate nel governo Draghi. Non l’Europa, ritrovata in extremis ma che ci attende al varco, sospettosa sulla nostra capacità di spendere i fondi promessi e nel frattempo incapace di farsi rispettare dalle multinazionali del farmaco.

Ecco, forse a unire noi neo-italiani post-pandemici è solo quanto segue. La ragionevole fiducia che l’Italia riuscirà a darci un piano vaccinale più comprensibile di quello delle diverse Regioni: anche perché non ci vuole molto. La caparbia speranza che l’Italia, ancora lei, presenterà davvero un Recovery Plan sufficiente a giustificare l’arrivo dei fondi europei, ma soprattutto a ridarci uno straccio di normalità. Infine, la testarda illusione che l’Italia, sempre lei, sarà persino capace di restituirci il futuro.

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