Steven Gerrard un campionato non l’aveva mai vinto. Da giocatore, anzi da capitano e bandiera del Liverpool, lo aveva accarezzato nel 2014. Ma il clamoroso scivolone che portò al gol di Demba Ba spezzò le speranze di una squadra che sembrava lanciata verso un titolo scontato. Quell’episodio, più che mai iconico se visto a posteriori, è stato parzialmente riscattato con la recente conquista della Premiership scozzese. Il tecnico inglese, ora alla guida dei Rangers, è riuscito dopo quasi un decennio a porre fine all’egemonia degli odiati ed eterni rivali del Celtic. Alle 13:53 del 7 marzo è bastato lo scialbo pareggio senza reti dei cugini sul campo del Dundee per avere l’aritmetica dalla propria parte. La sfida tra i due club di Glasgow è un qualcosa che va al di là del semplice calcio. Cattolici contro protestanti, indipendentisti contro unionisti. Divergenze di vedute che fanno dell’Old Firm un derby particolarmente sentito. Proprio 50 anni fa (era il 2 gennaio 1971) nella città scozzese si consumò la più grande tragedia del calcio britannico dopo quella di Hillsborough. Una calca fuori controllo consegnò 66 persone alla morte. Tra di loro molti bambini.

L’euforia dei Rangers, ormai affrancati dall’incubo del fallimento societario e dalla ripartenza dalla quarta divisione nel 2012, è stata difficile da contenere. Nonostante le rigide disposizioni anti-Covid in atto, i tifosi si sono affrettati a festeggiare il titolo della rinascita. In migliaia si sono radunati in punti nevralgici, come lo stadio o la piazza principale di Glasgow. E la reazione della premier indipendentista Nicola Sturgeon non si è fatta attendere: “Mi rendo conto del fatto che si tratti di un gran momento, ma dopo tutti gli sforzi fatti finora in lockdown ci troviamo con il rischio che una minoranza metta tutto a soqquadro”. Un veglione finito con l’arresto di 28 persone e che è andato di pari passo alla glorificazione di Gerrard su tutti i tabloid britannici. Stevie G è stato il protagonista assoluto di questo capolavoro sportivo, vissuto e ammirato con particolare nostalgia anche dalle parti di Anfield. Si è formato come allenatore nell’Academy del Liverpool e un giorno spera di ritornarci: “È il mio club, ma il momento non è adesso. Chi può dire se sarò mai abbastanza pronto? Ci sono molti tecnici in giro e per adesso dobbiamo soprattutto rispettare Klopp”.

L’attuale manager dei Reds sta vivendo il suo peggior momento. La Premier s’è trasformata in una questione monotematica, diventando un campionato soggiogato allo strapotere del Manchester City di Guardiola. Il Liverpool è piombato in una crisi senza precedenti, allontanandosi anche dal quarto posto che vale la qualificazione alla prossima Champions, anche se nella massima competizione europea ha già conquistato l’accesso ai quarti di finale. In questi casi è sempre troppo facile puntare il dito contro l’allenatore. Si parla di fine ciclo, ma si dimentica il grave infortunio che sta tenendo fuori causa Van Dijk. Leader della squadra, muro insuperabile e regista aggiunto. Una perdita che la proprietà americana non è stata in grado di colmare con un mercato fin troppo deficitario, che a gennaio ha portato in dono un difensore di seconda divisione (Ben Davies dal Preston) e un difensore di prospettiva (Kabak dallo Schalke). Il dato che impressiona maggiormente, però, è quello che si è consolidato nell’ultima giornata. Contro il Fulham è arrivata la sesta sconfitta di fila ad Anfield, storicamente una fortezza inespugnabile. Basti pensare che Klopp, nelle prime cento partite casalinghe disputate con i Reds, ne ha ciccate soltanto quattro.

Risultati che hanno attirato, com’era ampiamente prevedibile, pesanti critiche. Jamie Carragher, una delle leggende della società del Merseyside, ha parlato di “mentalità da nani” mentre l’ex attaccante Robbie Fowler è entrato a gamba tesa su Salah, al centro di un caso social che ha coinvolto l’agente dopo la contestata sostituzione nella gara (persa) contro il Chelsea. Il tweet più curioso è stato invece del presidente della Namibia, a quanto pare accanito sostenitore dei Reds: “Il Liverpool da un po’ di tempo cammina da solo. Purtroppo noi tifosi stiamo diventando orfani perché la nostra squadra sta morendo” ha scritto Hage Geingo, parafrasando l’inno di un club che verosimilmente sta pagando più di tanti altri l’assenza del pubblico, uno dei fattori chiave del suo successo. È normale che già ci si interroghi sul futuro di Klopp. Tutto passa dalla qualificazione alla prossima Champions League. Il fallimento dell’obiettivo, oltre al mancato incasso del premio finanziario, potrebbe stravolgere la campagna acquisti. Meno soldi, meno appeal e la Coppa più importante da guardare sul divano di casa.

Intanto lui si è tirato fuori dalla corsa alla panchina tedesca, che a fine Europeo sarà vacante. L’annuncio del ct Joachim Loew ha dato il via al toto-nomi. Bisognerà trovare un erede di peso, all’altezza del compito e di una nazionale che ha voglia di riscattarsi dopo il pesantissimo flop al Mondiale di Russia 2018. Oltre al profilo di Klopp, che la federazione sogna di avere per l’Europeo che disputerà in casa nel 2024, si starebbero valutando due alternative. Una porta a Hansi Flick, l’attuale allenatore del Bayern Monaco che di Loew è stato a lungo assistente. L’altra a Ralf Rangnick, in estate vicino al Milan prima del rinnovo di contratto di Pioli. Le storie, anche quelle più belle, prima o poi hanno una fine e lasciano spazio a nuovi capitoli. Di sport e di vita. Da mesi, in Inghilterra, si continua a vociferare del particolare debole della dirigenza del Liverpool nei confronti di Gerrard. Tutto dipenderà da come evolverà il finale di stagione, ma le strade sembrano condurre al rientro in grande stile dell’ex centrocampista. Stavolta in panchina. Perché tornare a casa dopo un lungo viaggio è uno stato di necessità.

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