Entrando nei cunicoli sotto il piano strada del nuovo viadotto di Genova, sorto sulle macerie del Morandi a tempo (e costo) record, si coglie finalmente il paragone abusato dalla retorica locale tra il ponte ‘Genova San Giorgio’ (com’è stato chiamato malgrado il comitato dei parenti delle 43 vittime della strage avrebbe preferito intitolarlo “14 agosto 2018”) e lo scafo di una nave.

Le tre passerelle interne e i tanti ‘oblò’ presenti per tutta la lunghezza della nuova infrastruttura in acciaio permettono in effetti di esplorare e monitorare lo stato del viadotto restituendo l’impressione di camminare all’interno del corridoio della coperta di una grande imbarcazione.

All’esterno telecamere che monitorano metro per metro la struttura, i pannelli fotovoltaici che generano energia per sostenere un terzo di quanto consuma il ponte (tra illuminazione, sensori e componenti tecnologiche connesse) e soprattutto la ‘cabina di regia’ che raccoglie tutti i dati del primo viadotto autostradale italiano costruito con il massimo della tecnologia disponibile.

Ogni movimento, inclinazione e persino il grado di umidità è monitorato e i dati sono consultabili in tempo reale grazie alla connessione che collega tra loro sensori e strumenti di monitoraggio. Processi automatici permettono di deumidificare e mantenere a temperatura costante l’interno e l’esterno del ponte per evitare che condensa, pioggia e altri agenti atmosferici possano rovinare la struttura, lungo i piloni che sostengono il ponte non si vedono le indecenti “grondaie” che colano liquami e tingono i piloni nei vecchi viadotti della rete autostradale: l’acqua piovana viene raccolta sulla superficie e incanalata attraverso grandi tubature che percorrono l’interno del ponte in tutta la sua lunghezza verso le vasche dove viene raccolta e avviata agli scarichi.

Come i tubi dell’acqua, così tutti i servizi e le tecnologie sono nascoste nello “scafo” sottostante il piano stradale. Consapevoli che questo è probabilmente un modello di tecnologie che potrebbe prevenire futuri disastri, i costruttori hanno organizzato un tour giornalistico per soddisfare la voglia di vedere “come dovrebbero funzionare” i ponti del futuro, per mostrare i lavori ultimati (a sette mesi dalla riapertura al traffico della tratta autostradale) ma soprattutto per cogliere l’opportunità di accreditarsi per la ricostruzione o l’ammodernamento della (spesso) fatiscente rete autostradale italiana.

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