Nella giornata di oggi il mio pensiero va alle donne che vivono dietro i cancelli delle carceri italiane. Spesso un po’ più sole dei detenuti uomini, spesso un po’ più abbandonate a loro stesse. Sono 2.252 – di cui 25 hanno con sé i loro 27 bambini sotto i tre anni di età – pari al 4.2% del totale della popolazione detenuta. Una percentuale sostanzialmente stabile nel tempo, che negli ultimi 30 anni ha visto raggiungere il picco superiore del 5.4% nel 1992 e quello inferiore del 3.8% nel 1998, ma che nella media si è sempre mantenuta poco sopra i 4 punti percentuali, di poco inferiori al valore mediano dei paesi del Consiglio d’Europa. Dovremmo interrogarci con forza sul perché le donne in tutto il mondo delinquono così tanto meno degli uomini.

Sono quattro le carceri femminili presenti sul territorio italiano: a Trani, Pozzuoli, Roma e Venezia. La loro capienza ufficiale è pari a 509 posti letto. Il tasso di affollamento ufficiale risulta del 107.9%, superiore al tasso di affollamento ufficiale generale delle carceri italiane (pari al 105.5%, e tuttavia inferiore a quello reale vista la mancata considerazione dei posti letto inutilizzabili). Le donne, con il piccolo peso numerico che arrecano al sistema penitenziario, non sono responsabili del sovraffollamento carcerario ma lo subiscono più degli uomini. Quando, al contrario, non soffrono di isolamento.

Le donne in carcere, dicevamo infatti, sono spesso più sole dei detenuti uomini. Perché? Sicuramente perché le quattro carceri femminili che abbiamo citato ospitano meno di un quarto del totale delle donne detenute. Le altre sono distribuite nelle 46 sezioni femminili ospitate all’interno di carceri maschili. Nonostante la riforma dell’ordinamento penitenziario entrata in vigore nell’ottobre 2018 abbia introdotto all’art. 14 l’esplicita specificazione che le donne ospitate in apposite sezioni devono essere “in numero tale da non compromettere le attività trattamentali”, troviamo dieci donne nel carcere di Barcellona Pozzo di Gotto, ne troviamo otto in quello di Mantova, due a Paliano, una a Chieti. Difficile organizzare occupazioni significative per queste persone. Chi deve gestire un carcere con centinaia di detenuti uomini e un numero di donne che si conta sulle dita di una mano, dove sceglierà di convogliare le risorse economiche e umane a disposizione?

Il carcere è un posto strano. Nonostante gli organismi internazionali sui diritti umani affermino che la vita interna, in vista del futuro rientro in società delle persone condannate, dovrebbe somigliare al massimo a quella esterna, in carcere uomini e donne non si incontrano quasi mai. Non possono frequentare la scuola insieme, come accade nelle classi dei nostri figli. Non possono seguire un corso di formazione professionale misto o un laboratorio comune. Il superamento di questo tabù farebbe migliorare di molto la vita delle donne recluse in piccole sezioni femminili. La pandemia ha fatto uscire il carcere – speriamo non solo momentaneamente – dal Medioevo informatico nel quale era immerso. Per la prima volta si sono usati pc, tablet, smartphone per i colloqui con i parenti e per la didattica. Chissà se dovremmo aspettare ancora molto per vedere un uomo e una donna seduti allo stesso banco.

Chissà se, in generale, la crisi sanitaria che stiamo vivendo, con le drammatiche ripercussioni che ha avuto anche sull’universo penitenziario, saprà lasciare insegnamenti duraturi per puntare a un modello più avanzato di detenzione. Anche su questo tentiamo di ragionare nel rapporto annuale di “Antigone” sulle carceri dal titolo Oltre il virus, che verrà presentato il prossimo giovedì 11 marzo in diretta Facebook e Youtube alla presenza del Capo Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Bernardo Petralia, del Capo Dipartimento per la Giustizia Minorile e di Comunità Gemma Tuccillo, del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà Mauro Palma.

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