Agata non vive in una casa ma in una stanza. Vi abita con la madre anziana, titolare di una pensione minima, e con la figlia di 8 anni. La nonna è il welfare di quel nucleo famigliare chiuso in se stesso per la paura del futuro. Quando Agata lavora, la nonna va a prendere la nipotina da scuola, le tiene compagnia mentre fa i compiti.

La camera da letto è adiacente ad un angolo cottura che porta direttamente al bagno. Un buco. Non c’ è spazio tra il lavandino e quella che dovrebbe essere una doccia. Agata fa i turni, ha un salario da fame ed un contratto precario. Paga 250 euro di affitto e vive aggrappata a 450 euro mensili con l’angoscia di perderli, di essere licenziata. Si è separata qualche anno fa da un ex marito violento, oggi assente. Non è un male. Non tutti gli autori di violenza cambiano o sono in grado di fare percorsi di consapevolezza e scegliendo di non esserci fanno l’unico atto di generosità di cui sono capaci. Almeno quello.

Vi ho fatto il ritratto di una donna reale, come le tante, sempre più povere, accolte nei Centri antiviolenza, dove i tempi dell’ospitalità si allungano di anno in anno, perché una volta superato il problema della violenza resta quello dell’autonomia economica delle donne. Alcune Regioni stanziano fondi per il reinserimento lavorativo ma se non c’è occupazione, se non ci sono salari sufficienti a vivere in quella giungla che è diventato il mondo di lavoro, le donne non riescono a ricostruirsi una vita.

Il 4 marzo a Piazzapulita (intervistata purtroppo a mezzanotte) Linda Laura Sabbadini, direttora centrale dell’Istat, ha fatto un ritratto lucido della condizione delle italiane. Dopo un anno di lockdown e zone rosse stanno peggio delle greche: “In Italia si intreccia una arretratezza nelle politiche sociali insieme alle politiche di genere che dura da anni e su questi due fronti siamo indietrissimo. La pandemia ha avuto un effetto diretto su un un milione di poveri assoluti in più, nonostante il reddito di cittadinanza, di emergenza, il blocco dei licenziamenti e i ristori. Se non ci fossero stati avremmo avuto milioni di poveri in più”.

La pandemia ha colpito duramente l’occupazione femminile falcidiando il 70% dei posti di lavoro. Solo nel dicembre 2020, si sono persi 100mila posti di lavoro e 99mila erano occupati da donne. I più colpiti sono stati i settori dei servizi, come turismo, ristorazione, alberghi, servizi domestici. Le donne hanno dovuto sobbarcarsi anche il maggior lavoro di cura durante il lockdown e alcune hanno dovuto rinunciare al lavoro. Oxfam Italia nel report ” Il virus della disuguaglianza ha denunciato come, grazie a un sistema economico iniquo, “un’élite di miliardari ha continuato ad accumulare ricchezza nel corso della più grave crisi dai tempi della Grande Depressione, mentre miliardi di persone sono state spinte sull’orlo della povertà”.

“La crisi della cura” (cit. Sabbadini) avviene in un momento drammatico a livello globale perché si deve affrontare una crisi economica strutturale, la pandemia e il cambiamento climatico. Il 57% dei fondi previsti nel Recovery Fund andranno a settori dove sono più impiegati gli uomini: la politica italiana è miope, pensa ancora le donne come femmine dell’uomo o una minoranza di cui occuparsi poco e con fastidio.

Il 9 giugno 2020 era stato presentato il Position Paper “Il cambiamento che vogliamo” coordinato da D.i.Re e redatto da un ampio gruppo di donne femministe attive su diversi temi con proposte contro la marginalizzazione delle donne, che sono i pilastri che hanno retto e reggeranno l’onda lunga della pandemia. Dobbiamo ripensare le lotte delle donne ed è dalla cura che dobbiamo partire: non solo di anziani, bambini, malati ma della cura dell’ambiente per farne un progetto politico: dalla condivisione sociale della cura alla suddivisione equa con gli uomini. Agli uomini metà della casa, alle donne la metà del mondo. O le donne non avranno più alcun luogo che le possa accogliere, una volta uscite di casa.

@nadiesdaa

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